Serva
di Dio |
«Entri nella casa del tuo Dio»
La porta si apri, e la
religiosa che faceva in quel giorno da portinaia (Sr. Giacomina Calderoni, che in
seguito sarebbe stata per tanti anni mia superiora) mi accolse con un incoraggiante
sorriso.
Come mi parve bella la casa del Signore, non tanto per il suo aspetto esteriore quanto
perché in essa vedevo delinearsi il mio avvenire sotto una luce di grazia
che sarebbe aumentata sempre più a misura della mia corrispondenza. Infatti,
Gesù mi diceva interiormente: «Entri nella casa del tuo Dio; ricordati
di dare opere di luce; devi effondere la luce intorno a te per compiacermi, per il
bene della tua comunità e per i disegni che ho su di te. Non sgomentarti,
lasciami fare: comprenderai in seguito in qual modo mi servirò di te per effondere
la mia luce».
Dopo qualche minuto di attesa, venne a ricevermi la Madre generale. Mi fece un'accoglienza
festosa e materna, cosa che parve sollevare il mio Vincenzo come da un incubo.
Con mio fratello facemmo a gara nel mostrarci forti al momento del distacco. Dopo
averlo incaricato dei più tranquillizzanti messaggi per la mamma e il babbo,
lo vidi andarsene abbastanza rasserenato.
Partito Vincenzo, m'inginocchiai davanti alla Madre, rimettendomi senza riserve a
disposizione dell'obbedienza. Le avevo chiesto di ammettermi fra le converse (cosa
che avevo preferita perché mi dava la certezza che non mi avrebbero mai eletta
superiora) ed ella, accettando di buon grado la scelta, mi disse: «Fin da questo
momento dovrete considerarvi figlia dell'obbedienza e dipendere - in tutto dalle
vostre superiore che vi parleranno sempre in nome di Dio. Ricordatevi che vi proverò
molto!».
E mi mandò in cappella per una visita a Gesù sacramentato.
Con quanto abbandono lasciai che il mio cuore si effondesse in pieno in quello dell'Amico
divino! In quel primo incontro eucaristico nella sua casa Egli continuò a
dettarmi il programma che avrei dovuto seguire per formarmi alla perfezione religiosa:
«obbedienza e carità perfetta di pensiero, di parole e di opere».
Ogni impressione di quel giorno era grande e profonda, ma quanto sanguinante la ferita
del distacco! Non mi sarà mai possibile dire con quanta energia mi sia dovuta
imporre a me stessa per aderire in pieno alle esigenze di un Amore geloso, che mi
chiedeva il sacrificio degli affetti più cari e santi. Però, in compenso,
con quale familiarità e intimità di rapporti, appena entrata in Religione,
Gesù incominciò a darsi all'anima mia! Il compito della mia formazione
se lo assunse Lui stesso. Mi seguiva sempre (spesso con presenza a me visibile),
mi ammaestrava, mi guidava in tutto e per tutto.
Il giorno dopo il mio ingresso, la Madre generale mi chiamò a sé per
assegnarmi i miei compiti: custodire il guardaroba delle educande, assistere le inferme,
mantenere in perfetto ordine e nettezza i dormitori, ecc. «Essendo giovane
e robusta, con la benedizione di Dio e il merito dell'obbedienza, riuscirete a far
tutto».
Vedendo le necessità della casa, per essere di aiuto, avrei voluto prendere
su di me le fatiche più grandi; e non dico quanto fossero piene le mie giornate...
Molte volte arrivavo a sera senza aver potuto dare un momento di tregua alla mia
anima, e allora ne andava parte della notte. Come lo ricordava la Madre il proposito
di provarmi! Ed io, in quel tempo, ero tutt'altro che indifferente... Credo che se
non avessi avuto sempre vicino il Signore, non avrei potuto perseverare e sarei tornata
in famiglia.
«Adora incessantemente!»
Gesù era di continuo
al mio fianco, mi accompagnava quando mi mandavano in città, mi parlava per
via lasciandomi vedere soltanto il breve tratto di strada sufficiente a dirigere
i miei passi verso la meta.
Mi diceva ad esempio:
«Non sei sola. Ti seguo. Rimani occupata della mia presenza e lascia che io
illumini il tuo intelletto, dia ardore di carità al tuo cuore, per elevarti
a quella contemplazione che deve formare la tua caratteristica spirituale».
Oppure: «Voglio delinearti il cammino che dovrai percorrere fedelmente. Lo
potrai, se adorerai incessantemente. L'adorazione è amore, l'amore è
donazione. Rinnoverai la tua donazione ad ogni tua azione. Opera sempre alla mia
presenza. Non ti chiedo cose grandi, ma fedeltà all'istante. Anche i più
piccoli atti di fedeltà sono da me accolti con compiacenza».
Dopo queste o altre simili parole, io entravo come in una regione superiore e mi
perdevo nella contemplazione delle perfezioni di Dio. Queste contemplazioni mi mettevano
un ardore che mi bruciava: mi sentivo consumare. A volte mi vedevo ad un tratto circondata
come da un grande e bellissimo cielo (non saprei descriverne la bellezza) e in questo
cielo di luce penetravo la perfezione di Dio, la sua grandezza: DioLuce, Uno e Trino
nel suo splendore... Qui non ho parole per spiegarmi. Quando ho avuto illuminazioni
sull'Umanità del Verbo, sono riuscita a descriverle in qualche modo, ma queste
no. L'intelletto ha compreso, s'è perduto in queste profondità... Ridirle
non è possibile: è una luce sublime che non ha paragoni sulla terra...
Ho sempre chiesto al Signore che niente apparisse in me di straordinario, di farmi
seguire in tutto la vita comune, ma... come gli è piaciuto esaudirmi?
Era desiderio di Gesù che giungessi sempre puntualissima agli atti comunitari,
tanto che arrivava fino ad avvertirmi quando mancavano pochi minuti; e la Madre,
che si era accorta della mia premura, mi aspettava alla porta della cappella per
mandarmi o da un'inferma o nelle scuole o a fermare e ad aprire finestre...
Quasi sempre quando, compiuta l'obbedienza, tornavo, venivo rimproverata per il ritardo.
Sentivo di non dovermi giustificare e mi costava, perché le altre religiose,
non sapendo com'erano andate le cose, si mostravano dispiacenti di quel modo di fare
della nuova arrivata.
Ma il mio Divino Maestro mi ammaestrava così:
«Non fermare mai il tuo ragionamento su pensieri di scusa, ma proponiti di
far meglio in seguito». Ed esigeva che non lasciassi in nessun modo trapelare
neppur l'ombra del contrasto e della sofferenza.
In seguito, la Madre generale, per darmi prova della sua materna comprensione, mi
volle con sé quando faceva l'Ora santa. Dalle ventidue alle ventitrè
m'intratteneva a colloquio, poi si andava in cappella per rimanervi fino alla mezzanotte.
Ella leggeva i punti che io dovevo ascoltare con attenzione, perché poi me
li faceva ripetere.
Il più delle volte mi era impossibile seguire quella lettura e non avrei saputo
dirne una sillaba senza un particolare aiuto del Signore.
Terminata la pia pratica, la buona Madre mi teneva ancora a lungo a parlare ed io,
che mi ero alzata prestissimo, non mi reggevo dal sonno. Era il Signore che voleva
così. Ma ero persuasissima di non pagare mai troppo il privilegio e le grazie
che sentivo di dovere al fatto di trovarmi nella santa casa del mio Dio, e quanto
spesso lo ringraziavo per quanto Egli permetteva che potesse impreziosire ai suoi
occhi le mie giornate!
Un tentativo della mamma per riavermi in famiglia
Intanto la mamma, dopo
appena una settimana dal mio ingresso, parendole di non poter più resistere
e sentendosi venir meno da un dolore che, diceva, l'avrebbe fatta presto morire,
mi faceva giungere da Faenza lettere su lettere in tutti i toni e, non vedendo arrivare
la risposta che aspettava, una mattina andò in Pretura.
Aveva appena salito le lunghe scale quando, nell'atto di suonare il campanello, si
sentì come respingere da una mano invisibile e, senza saper come, si ritrovò
in fondo alla scala. Per tre volte, vincendo il timore e lo stupore, insistette nel
tentativo, sempre con lo stesso risultato. «Ad ogni costo bisogna che io parli
al pretore per far tornare la mia Palmina», si disse, e ancora una volta salì
fino alla sommità, ma venne fermata e trattenuta da un personaggio maestoso,
imponente, che non volle ascoltare ragioni e quasi minaccioso le intimò di
non avanzare. Impressionata e sgomenta, corse allora a raccontare tutto al suo confessore
che, illuminato da Dio, le fece comprendere come quel suo tentativo di riprendere
al Signore quanto già gli aveva dato, potesse in realtà disgustarlo;
che il lasciarmi nella sua santa casa sarebbe stato una sorgente inesauribile di
benedizioni e di grazie per l'intera famiglia, che si mettesse, dunque, e mi lasciasse
tranquilla... A poco a poco, la rassegnazione si fece strada. Le mie tante preghiere
per lei cominciarono ad avere il loro effetto.
Sentivo di abbracciare tutte le anime
Per me continuavano le
prove; circostanze assai difficili andavano succedendosi le une alle altre, ma nonostante
la mia grande sensibilità, dovevo tenermi superiore a tutto, pienamente abbandonata
alla condotta del mio Dio. A misura che riuscivo a vincermi, mi venivano aperti più
ampi e luminosi orizzonti di grazia. Se avessi potuto conservare in scritto tutte
le lezioni che mi dava allora Gesù!
Se gli ambienti del Collegio S. Giuseppe potessero parlare!
Non posso pensare a quel tempo senza commuovermi. Il Signore mi si comunicava con
tale abbondanza di grazia e pienezza di amore da costringermi a pregarlo di voler
mitigare i suoi trasporti se voleva conservarmi in vita.
«Lasciami fare, rispondeva, ho bisogno di una piccolissima creatura aperta
ad accogliere la pienezza del mio amore per poterne allargare l'effusione su tutta
la terra. Questa è la tua missione».
E mentre diceva queste parole, con la rapidità del baleno, mi trasportava
sui quattro punti del globo in maniera da darmi l'intuizione, la visione direi quasi
sensibile di tutte le terre che sono sotto il sole, investendomi insieme di un senso
di maternità per tutte le anime. Da quel punto, il mio cuore sentiva di abbracciarle
tutte con un amore grande quanto la Carità divina che lo dilatava, e a tutte
e ad ognuna in particolare rimaneva incatenato. Non arriverò mai ad esprimere
quanto provavo allora. Mi donavo tutta al mio Dio, dicendogli di fare di me e attraverso
me tutto quello che voleva... Sembrava che la grazia che ricevevo sovrabbondantemente
mi venisse strappata quasi a forza. Un impeto superiore alla resistenza di una povera
creatura mi colmava e una forza altrettanto gagliarda mi svuotava...
Mi sembrava di venire dissanguata, e il mio essere spirituale e fisico rimaneva completamente
estenuato. Da quell'epoca, incominciai a sentirmi associata ad ogni forma di missione
svolta nella Chiesa. Un solo campo, un solo ramo di essa non mi avrebbe potuta soddisfare,
perché sentivo che il mio cuore abbracciava l'universo.
Il Signore voleva da me un'obbedienza prontissima che in spirito di fede sapesse
mirare diritto a Lui senza adattamenti e col più assoluto sacrificio della
volontà propria, anche quando i comandi sembrassero contrari a quanto direttamente
mi chiedeva. Ammoniva sempre: «Farai questo o quello, a meno che i superiori
non ordinino altrimenti, nel qual caso mi compiacerai obbedendo senza repliche e
nello splendore della carità».
Se non obbedivo come desiderava, si sottraeva al mio sguardo.
Quanto mi tornavano penosi quegli abbandoni! Per me Gesù era tutto. Nei periodi
di prova dovevo continuare a servirlo fedelmente senza mai dubitare della sua bontà.
Mi studiavo di farlo e di mettere in pratica le sapientissime norme della sua direzione.
Fin da principio mi aveva addestrata a un tessuto di mortificazioni minute che, senza
alimentare l'amor proprio, contribuivano a nutrire la sacra fiamma dell'amor di Dio.
Singolare preparazione alla vestizione
Si era giunti in prossimità
della vestizione religiosa, già le compagne ne parlavano con trasporto ed
a me, che ne avevo il più acceso desiderio, non ne era stata fatta parola.
In quell'epoca si era manifestata fra le educande più piccole un'epidemia
di morbillo e si dovette perfino improvvisare un'infermeria capace di ospitarle tutte,
evitando così il
pericolo di contagio per le altre. Non dico quanto mi desse da fare il mio ufficio
di infermiera... Prediche, istruzioni, letture spirituali: ne andò di mezzo
tutto, compreso il ritiro.
Un giorno, incontrando la Madre Maestra, osai chiederle se io pure fossi stata del
fortunato gruppo. Ella mi lasciò nell'incertezza. Quanto ne rimasi addolorata!
Non seppi trattenere le lacrime... Alla prima occasione che mi si presentò,
rivolsi pure alla Madre generale la stessa domanda.
«Vedremo quello che deciderà il consiglio», rispose. Proprio in
quel periodo, la buona Madre andava provandomi in ogni maniera. Ma quanto l'amavo,
quanta stima avevo per lei che sapeva formare così bene la mia anima! Sentivo
a prova come e quanto quella sua forte condotta a mio riguardo desse vita al mio
spirito e mi tenesse sempre più unita a Dio. Quello spezzamento continuo della
mia volontà, quelle rinunce, quelle corroboranti umiliazioni mi facevano il
vero bene ed io, in segno di gratitudine verso di lei, spesso baciavo la terra ove
passava.
Quando mi richiamò a sé per dirmi che mi disponessi con gratitudine
al gran giorno, m'impose un nuovo sacrificio: avrei dovuto fare il mio ritiro continuando
l'assistenza ad un'educanda in quarantena.
Gli Esercizi spirituali li predicava il Padre Basile S.J., confessore straordinario
della comunità e mio direttore. Il Signore, in quella circostanza, mi aiutò
a vedere una sua permissione e non mi rammaricai troppo. D'altra parte, pensò
Lui stesso a farmi le istruzioni... e quanto furono preziose! Il primo giorno, Egli
mi disse:
«Tu sei il mio ciborio in cui io entro ed effondo le mie grazie per arricchirlo
e compíacermene».
Soltanto alla vigilia potei confessarmi e conferire col Padre, che mi incoraggiò
a proseguire la mia linea di intimità e di amore con Gesù.
Una grande, luminosa idea dominava fin d'allora il mio spirito: la santità
che il Signore esige dalle persone a Lui consacrate, sacerdoti e religiose: esigenze
di amore non abbastanza soddisfatte, per cui il lamento del cuore divino m'impegnava
a curare al massimo il mio perfezionamento ed a pregare e offrire per la santíficazione
della porzione eletta. Col consenso del direttore, mi offrii per questo fine tanto
desiderato da Dio.
«Come vorreste essere chiamata da suora?»
«Avete mai pensato,
mi chiese in quello stesso giorno la Madre, al nome col quale vorreste essere chiamata
da suora?». «Suor Bonaventura!», risposi pronta.
«E perché mai questo nome?».
«Perché una volta, da bambina, sentii una bellissima predica su quel
Santo e fra le molte cose che ascoltai, mi rimase impressa una frase pronunciata
dallo stesso Santo, cioè che se lui fosse stato la spada di Longino che penetrò
nel sacro Costato del Cristo, non sarebbe mai più uscito di là. Comprendendo
l'amore che portava a Gesù, mi piacerebbe averlo come protettore».
«Lasciate fare a me. Il nome ve lo darò io e sarete ancor più
contenta!».
Giunse il 19 settembre 1906. In quella mattina ero talmente compresa dell'atto che
stavo per compiere, da non poter dare il minimo di attenzione a quanto avrebbe potuto
costituire non piccola prova...
Terminata la S. Messa, dopo aver ricevuto la divisa benedetta di Ancella del S. Cuore
e già rivestita di essa, tornai all'altare per ricevere il mio nuovo nome.
All'udire la voce sonora e solenne del cardinale Domenico Svampa scandire lentamente
in latino:
«Ti chiami Palma Zauli; sarai chiamata Suor Maria Costanza», ebbi un
primo moto di scontento, ma subito una luce di grazia cancellò quell'impressione,
facendomi comprendere che non avrei potuto conquistare la palma se non fossi restata
costante nella fedele dedizione a Dio fino alla morte; sentii che la mia Madre non
aveva scelto a caso e proposi di non derogare mai dal programma che mi dettava quel
nome. In seguito, Gesù stesso lo completò, appagando in pieno il mio
desiderio: «Ti chiamerai Suor Maria Costanza del Sacro Costato».
«Avanti, Suor Costanza!»
Certe pagine non potranno
mai venire scritte...
Durante il mio noviziato, essendo le mie giornate ricche di tante belle occasioni
per «offrire», ritrovandomi in cella la sera, ne baciavo le pareti dicendomi:
«Quale grande grazia è mai quella di abitare nella casa del Signore!»,
e nei momenti nei quali la natura sentiva più forte il contrasto, mi serviva
di stimolo ripetere a me stessa: «Avanti, Suor Costanza! Non vedi quanto è
bello e prezioso questo stato di continua immolazione?». E tenevo fermo per
pura forza di volontà.
Non erano le fatiche e le prove comuni a tutti gli inizi a tenermi in tanta lotta,
ma quelle intime, inerenti alla via di grazia che dovevo seguire.
Il P. Basile, gesuita, che mi ascoltava in confessione, preoccupato, mi domandava
se mi trovavo bene, se ero contenta della scelta che avevo fatta; e, al sentirmi
rispondere che ero contenta di poter fare la volontà di Dio, capiva, e avrebbe
voluto mettermi in un monastero, progetto che non gli riuscì mai di vedere
attuato perché i disegni divini erano diversi.
D'altra parte, io amavo tanto la mia comunità, avevo in tale venerazione le
mie Madri e consorelle da non poter neppure pensare ad una separazione senza sentirmene
straziata.
Per dare prova di amore al mio Dio ed anche per gratitudine alla mia famiglia religiosa,
mi studiavo di compiere i miei doveri e di attendere alle mansioni affidatemi con
fedeltà, ma non riuscivo ad accontentare le mie superiore, e il vero motivo
del loro scontento era comprensibile: mostravo di seguire altro spirito...
Ero la prima a soffrirne e, senza un particolare aiuto dall'alto, mi sarebbe venuto
a mancare il coraggio per proseguire.
Ma il desiderio, che andava facendosi sempre più sentito, di poter aiutare
i Sacerdoti con la preghiera e la sofferenza, m'insegnava a tesoreggiare le molte
occasioni crocifiggenti del periodo del mio noviziato, che si prolungò per
due anni.
Un giorno Gesù mi disse:
«Tu devi fissare il tuo sguardo nel semplice istante che io passo nell'Ostia
consacrata. Addestrati sempre più nello spirito di annientamento, che sarà
il punto fondamentale della tua vita religiosa. Osserva il mio stato di Ostia: non
appare in nessuna manifestazione la mia onnipotenza; così tu dovrai scomparire
davanti a te stessa e alle creature, tenendo sempre più nascosto il dono del
mio amore in te. Non importa se la tua vita esteriore si svolge nel massimo movimento.
Contempla il mio istante nell'Ostia consacrata e procedi serena in ogni incontro,
anche penoso, non guardando alle molte difficoltà che si presenteranno e che
tenteranno sottrarti alla grazia che deve sempre più intensificarsi in te.
Ecco il tuo programma di novizia; ti attenderò al "consummatum est"
della tua vita religiosa».
In altre occasioni mi ammaestrò sui tre voti religiosi. Dovevo svolgere un'attività
superiore alle mie capacità, ma con l'aiuto che ricevevo dal Signore, riuscivo
ad accettare tutto con tranquillità di spirito, sì che tutto mi serviva
ad intensificare l'intimità col mio Dio.
Gesù ne fu contento e mi disse: «Metto a tua disposizione il tuo Angelo
custode, perché ti aiuti in ogni tua necessità».
Com'era bello il mio Angelo! Mi irradiava della sua luce e mi aiutava in tutto.
Il Signore, in quel tempo, incominciava già a parlarmi di un suo piano particolare.
Un giorno ero all'adorazione e mi disse:
«Ti voglio esclusivamente per me in una via di grazia che sollevi tante piccole
anime all'intimità col mio Cuore; e tu dovrai precederle in questo cammino
con una vita di grazia, di dedizione e di amore che niente ricusi alle esigenze del
mio amore».
La Professione religiosa
La Professione religiosa
venne fissata per il 10 settembre 1908. Ufficiò la cerimonia il nostro cardinale
arcivescovo Giacomo Della Chiesa (poi Benedetto XV).
Anche in quella circostanza, il Signore permise che io non potessi avere altra preparazione
che la sua, e ricordo ancora le parole con le quali mi dispose: «In questi
giorni tu pensa a donarti a me ed io penserò ad adornarti per me».
Seppe farla davvero la sua parte... Avrò io saputo fare la mia?
Di proposito non avvertii nessuno dei miei familiari della data della mia Professione,
sembrandomi più conveniente trascorrere quella giornata innanzi al Tabernacolo.
Il Divino Maestro mi spiegò il profondo significato dell'atto che avevo compiuto
e le esigenze inerenti alla piena consacrazione al suo amore. «Da questo momento,
disse, non ti appartieni più. Abbandonati senza riserve alla mia condotta
e rimani nelle mani dei tuoi superiori che ti comandano in mio nome come una cosa
morta; non soltanto a parole, ma con i fatti. Di occasione in occasione, la tua fedeltà
deve ripetermi la sincerità della tua dedizione».
Mi fece pure ulteriormente approfondire la bellezza e la preziosità dei santi
voti, lo spirito col quale avrei dovuto osservarli, insistendo particolarmente su
quello di obbedienza, essenziale allo stato religioso, potendo esprimere da solo
la totalità della consacrazione a Dio; mi raccomandò che mai mi fossi
permessa di riprendere qualcosa di quanto gli avevo donato, promettendo in premio
alla mia fedeltà di immedesimarmi alla sua stessa vita e di sostituirsi a
me per adoperarmi come strumento delle opere sue.
In quel momento mi parve che si iniziasse per me una vita nuova, capace di darmi
la possibilità di svolgere quell'apostolato universale che tanto mi attraeva.
Gesù parla della nuova Opera
La consacrazione che avevo
fatto di me stessa al Signore con la mia Professione religiosa aveva portato l'anima
mia a una unione tale con Dio, che mi sentivo mossa a fare tutto con la massima purezza
di intenzioni, con amore, sì che mi pareva di vivere più in Cielo che
in terra. Questa forza di amore per il mio Dio non si è mai attenuata in me
per tutta la mia vita, neppure nei periodi di più forte prova.
Per tre mesi fui sotto un'azione divina sensibile, quasi continuamente astratta dal
mondo. Mi rivolgevo al Signore dicendogli:
«Ma come posso, Signore, compiere i miei doveri in questo modo?».
«Lasciami fare, rispondeva, ché verranno giorni di oscurità,
e questa intimità col tuo Dio ti aiuterà a giungere fino al tuo "consummatum
est"».
In seguito, mi sentii arida, come abbandonata e circondata di tenebre. Ebbi pure
molti contrasti e umiliazioni da parte delle creature e assalti del demonio.
È sempre stato così: ai periodi di illuminazioni e di grazie si sono
succeduti tempi di prove e oscurità.
Durante la novena del S. Cuore dell'anno seguente, nell'adorazione notturna, Gesù
mi parlò:
«Intensifica la tua adorazione, non solo qui, ma anche nei miei cibori abbandonati,
per riparare alla freddezza, dimenticanza, isolamento in cui sono lasciato. Ti voglio
formare per una piena dedizione al mio Sacramento d'amore, per prepararti al disegno
che ho su di te. Quando vi sarai tutta dedicata, lo comprenderai».
Un'altra mattina andai all'adorazione e vi trovai Gesù col suo aspetto soavissimo:
«Vieni, ascoltami, mi disse; tu devi precedere le anime che faranno parte dell'Opera
che voglio da te, vivendo quelle linee che in essa si dovranno seguire. Vivi una
vita eucaristica, tutta amore per il mio Sacramento d'amore».
E prometteva: «Tutto quello che l'Ancella Adoratrice domanderà in mio
nome all'adorazione, lo concederò». Seguì a questa manifestazione
di Gesù un tempo di molte contrarietà e di prove esterne e interiori.
Passato questo periodo, Gesù ritornò e mi disse: «Vedi, l'anima
che serve fedelmente il suo Dio deve sottoporsi a periodi di privazione. Queste purificazioni
ti sono necessarie per poterti conservare nella trasparenza della mia grazia e perché
tu possa aiutare altre a disporsi a servirmi con fedeltà. Voglio anime dedicate
alla fedeltà del momento, fedeltà che genera il gaudio. La creatura
ha bisogno di essere corroborata dal gaudio che proviene appunto dalla donazione
di sé».
Un'altra volta mi disse: «Voglio una schiera di anime dedicate esclusivamente
al mio Sacramento eucaristico per attuare, per mezzo di esse, il mio piano di misericordia
sulla Chiesa e sul mondo. Voglio impostare te su queste linee, perché tu dovrai
essere ad esse di guida».
Io gli risposi: «Gesù, pregherò e offrirò tutto perché
tu ti possa formare questo drappello; ma, ti prego, lasciami nell'ombra e nell'abiezione
di me stessa...». Innumerevoli volte insistei su questo punto, ma quando parlavo
così, Egli se ne andava via...
Il Padre Basile, al quale continuavo ad esporre tutto quanto mi accadeva di straordinario,
dopo aver molto ponderato e studiato il mio caso, m'incoraggiò ad un'incondizionata
adesione ai moti della grazia, m'ingiunse di lasciarmi adoperare, di non dimenticare
che le mie resistenze avrebbero potuto mandare a vuoto un importante piano di misericordia
e che non mi trattenessi dal riferirgli sempre schiettamente tutto.
Il prezioso sostegno del dotto e santo gesuita mi venne a mancare presto, perché
lo trasferirono a Roma. Negli ultimi mesi che trascorse a Bologna si adoperò
perché io potessi avere un colloquio col cardinale arcivescovo Giacomo Della
Chiesa. Egli venne in forma privatissima al Collegio e volle esaminarmi. M'interrogò,
mi parlò a lungo ed infine, con la sua benedizione mi diede l'obbedienza di
non più resistere alla grazia, di non oppormi alla volontà del Signore,
ma di procedere con molto riserbo e prudenza e, fino ad altro avviso, di tenere tutto
segreto, in assoluto silenzio.
Dopo pochi mesi da quell'incontro, il nostro cardinale arcivescovo venne eletto papa
e si scelse per confessore il Padre Basile. Coincidenze che in seguito si dimostrarono
provvidenziali per l'Opera.
Dispetti diabolici
La mia sola disposizione
alla docilità parve sollevare contro di me la rabbia dell'inferno. Incominciarono
i dispetti diabolici di ogni genere. Pure la notte venivo tormentata, e le vessazioni
andavano ognor più aumentando. Ne andò di mezzo la mia salute, tanto
che la M. Superiora, ritenendo che mi avrebbe giovato un cambiamento d'aria, mi mandò
al mare con un numeroso gruppo di educande. A quei tempi la spiaggia di Bellaria,
nella località scelta per il collegio, non presentava pericoli, pure bisognava
sempre tenere gli occhi aperti su quelle vivacissime figliole! La grazia evidentemente
mi aiutava e trionfava, e il demonio, invidioso, tentò di rifarsela su di
me.
Prima di pormi al riposo, ogni sera facevo un giro per tutti gli ambienti per rendermi
conto dell'ordine, della disciplina, delle varie occorrenze. Quella volta niente
avevo rilevato di insolito; ma quando, stanchissima, pensai di poter chiudere gli
occhi al sonno, mi parve di sentire nel buio della stanza un rumore come di una bestia
che girasse attorno. Mi sentii gelare dallo spavento; e, raccomandandomi al Signore,
alla Madonna, al mio Angelo custode, tremando tutta, riuscii a stento ad accendere
la candela. Con raccapriccio mi vidi vicinissimo, perché era riuscito a balzare
sul letto, un cagnaccio nero, in tutto simile a quello che tentava di spaventarmi
quando ero bambina. Armandomi del segno della croce, riuscii a respingerlo. Per meglio
difendermi, mi ero alzata; ed, essendosi sentiti nelle stanze di sotto rumori insoliti,
alcune consorelle vennero su, temendo che mi sentissi male; e non dico come rimasero
quando, aprendo la porta, ne videro uscire di corsa quella bestiaccia... Feci il
possibile per tranquillizzarle e deciderle di tornare al riposo. Io pure, per l'impressione
provata, non potei ritrovare la calma, e quella notte la passai tutta in preghiera.
L'Ostensorio luminoso
Nelle notti che, col permesso
dei superiori, passavo in adorazione, venivo sempre più ampiamente ammaestrata
ed illuminata sulla spiritualità che avrebbe dovuto informare l'Opera che
il Divino Maestro si compiaceva chiamare «il nuovo Carmelo eucaristico»,
promettendo che, mediante una linea semplice, soave, tutta amore, non sarebbe stato
meno atto del primo grande Ordine austero a far toccare alle anime le sublimi altezze
della perfezione.
A quel tempo risalgono non pochi favori. Fin dal principio chiesi a Gesù che
niente di men che ordinario e comune avesse mai a trapelare dal mio contegno; e,
nel domandargli ciò, mi valsi di un'obbedienza ricevuta dal Padre Basile.
Con estrema bontà mi venne risposto che l'esaudimento avrebbe comportato un
aumento di sofferenza:
«Come potrai contenere e dominare tanta veemenza di ardore divino?».
«Conto sulla tua onnipotenza, alla quale è certo possibile conservare
nell'ombra la tua povera creatura!». Sperimentai in seguito quanto fosse ardua
la prova che mi ero imposta. L'ardore della divina carità, che sempre più
a fondo m'investiva, mi avrebbe fatto gridare dallo spasimo. L'esuberanza dell'età
giovanile e quella fiamma, voluta fortemente dominare, mi consumava, facendomi subire
una specie di morte.
Avrei potuto dire anch'io come diceva S. Teresa: «Muoio perché non muoio!».
Era veramente così.
Me ne sarei rimasta sempre prostrata a terra, sentendo di continuo l'impulso di prendere
contatto con la polvere, della quale mi riconoscevo impastata. Quale spasimo! Difficilmente
potrà farsene un'idea chi non l'abbia, anche solo in parte, sperimentato.
Gesù, con tanta bontà, mi sosteneva, mi veniva in aiuto; ma quante
volte, per compiere i doveri assegnatimi, mi ritenevo obbligata a respingerlo!
Spesso ero controllata, vigilata, colta di sorpresa... e quale dominio dovevo impormi
per non tradirmi! Mi sentivo consumare viva viva. Un giorno, durante l'adorazione,
Gesù mi disse:
«Ora sei tutta mia e potrò fare di te quello che voglio!». «Si,
Gesù, risposi, ma guarda che io non abbia a rovinare tutto. È meglio
che faccia tutto tu per l'Opera tua». «Certo, rispose Egli, farò
tutto io. Ma tu lasciati adoperare docilmente per questo mio piano. Rimani nel mio
amore e segui queste nuove linee che ti do per vivere nella mia intimità eucaristica».
Dal ciborio mi mandò dei raggi di luce che mi accesero tutta.
Uscita di cappella, in qualunque luogo mi portavo, vedevo innanzi a me un Ostensorio
luminoso e sentivo la presenza di Gesù Ostia come in chiesa. Quando mi era
possibile ed ero sola, facevo delle prostrazione, degli atti di amore, delle offerte
di tutte le azioni che compivo.
I mistici sponsali
Per fini di riparazione,
il Signore desiderò che vegliassi con Lui l'intera notte fra il Giovedì
e il Venerdì santo (5 aprile 1913).
Potei avere il permesso della superiora, ma con la raccomandazione di usare molta
prudenza.
Si era iniziata in comunità la pratica dell'adorazione notturna, che veniva
compiuta a turni.
Fu stabilito che, dopo aver vegliato fino alla mezzanotte nei dormitori, mi fossi
portata a dare il cambio alle consorelle rimaste in cappella.
In quella notte, Gesù mi volle intimamente associata alle sue pene interiori:
all'agonia del Getsemani, allo strazio lacerante che ebbe a sperimentare quando Giuda,
col bacio traditore, lo mise in mano ai suoi nemici... Non potrei ridire quello che
passò in me: nell'anima mia e fin nel mio fisico.
Me ne stetti innanzi al Tabernacolo interamente prostrata, con la faccia a terra,
essendo tanto forte quell'azione di grazia da non riuscire a reggermi in piedi.
Ad un tratto, avvertii il passo di una consorella e cercai di ricompormi in modo
da non darle ammirazione. Quella religiosa mi disse poi come avesse intuito quanto
stavo sperimentando dalla mortale ambascia che mi vide sul viso pallidissimo e dall'evídente
accasciamento della mia persona e che, commossa fino alle lacrime, sentì di
doversene ritornare in cella.
Dopo le ore della durissima agonia, Gesù mi avvertì che in quella stessa
mattina sarebbe tornato per stringere con me i «mistici sponsali».
Alle quattro mi chiusi in una cameretta del pian terreno e poco dopo vennero Gesù
con la Madre sua, seguiti da vergini recanti lampade accese, simbolo di fede e di
carità, e il mio Angelo custode.
Gesù significò alla Madre sua la sua intenzione; ed ella, dopo avermi
rivestita di una bellissima veste di candore, mi si mise al fianco. Con Gesù
ci prostrammo in una specie di genuflessorio di luce, al cospetto del Padre celeste,
di tutta la SS. Trinità, e si compì il rito nuziale.
Lo Sposo chiese il mio consenso e, quando l'ebbi dato, mi mise all'anulare della
destra (e Maria santissima finì d'introdurvelo) uno splendido anello con tre
pietre preziose, riportante i suoi emblemi. Lui avrebbe voluto che lo tenessi sempre
nel dito quel pegno della nostra alleanza, promettendo che sarebbe rimasto visibile
a me sola e soltanto nelle maggiori solennità, ma io preferii consegnarlo
alla Madonna, perché me lo conservasse fino al mio ingresso in Cielo.
Come rimanessi dopo questo favore, non è possibile esprimerlo.
Non riuscivo a riprendere contatto con le realtà terrene, e in quel giorno
tanto pieno per le occupazioni del mio ufficio, perfino le educande notarono in me
qualche cosa di insolito.
Più stupita di tutte rimase la consorella che in quella notte mi aveva vista
quasi morta. La mia espressione di gioia, la mia esuberanza di vita le tornò
inesplicabile.
Nuova fase del cammino spirituale
Dopo i «mistici sponsali»
si aprì all'anima mia una nuova fase del cammino spirituale. Fu allora che
Gesù cominciò a manifestarmi il desiderio che aveva di presentarmi
al Padre suo.
Lo pregai di non farlo, perché ne avevo una grande soggezione, ma inutilmente.
Il primo incontro, nonostante la paterna benevolenza con la quale venni accolta,
aumentò il mio timore; e questa impressione durò a lungo. Si accrebbero
le preferenze per una vita ordinaria, di assoluto spogliamento, senza tante grazie
straordinarie...; ma le mie preghiere non servirono che ad attirarmene delle sempre
più segnalate.
Notai come le presentazioni al Padre venissero in seguito alle prove più purificanti,
particolarmente quelle che conformano al Cristo sofferente. (Certe gemme della dolorosa
Passione, pur facendo realmente soffrire il fisico, per il fatto che immedesimano
a Lui sono nel tempo stesso sorgenti di gaudio e danno pure il diritto ad una particolare
assistenza da parte della Madonna. Io ritengo di dovere a Lei l'essermi potuta conservare
libera da ansietà in così arduo cammino e fin nel periodo oscurissimo
delle più tremende vessazioni diaboliche).
Fu in una delle Quaresime (durante le quali Gesù volle risentire anche nel
mio corpo lo strazio dei flagelli, delle spine; il dolorosissimo spasimo cagionatogli
dalla piaga alla spalla sinistra per la pesantissima Croce, la trafittura dei chiodi
alle mani e ai piedi, quella del costato, e tutto, tutto, fino all'ultimo grido)
che venni poi, dal Redentore risorto, sollevata fino al Triplice Trono.
«Ecco, o Padre, la sposa che mi hai data!». Queste parole mi aprirono
la vista del Padre. Quale ineffabile meraviglia! Nessuna immagine o figura simbolica,
ma soltanto una luce tutta spirituale, comunicante alle mie potenze la capacità
di approfondire il Mistero di Dio Uno e Trino.
Intanto il mio povero cuore bruciava di un fuoco consumante; e non avrei potuto sostenermi
senza un continuo soccorso dall'alto.
Indissolubilmente unita al mio Sposo, spaziavo nei suoi dominii, sentendo di non
aver più altri interessi che i suoi. Eppure, sebbene disposta ad aderirgli
in tutto, era ancora
tanto forte in me la ripugnanza a lasciarmi adoperare per l'Opera...
Ripetutamente sollecitata da Gesù a volerlo assecondare docilmente, giunsi
fino a rispondere che mi sarei prestata solo a patto che mi avesse sempre più
nascosta in Lui fino a farmi scomparire.
«Sta' tranquilla, rispose, a questo penserò io!».
Come frutto della nuova fondazione prometteva speciali aiuti per la Chiesa, per le
Persone consacrate, per la nostra Nazione e per il mondo intero.
Continuavo ad avere presente al mio sguardo l'Ostensorio raggiante. Mi trovavo tanto
bene unita al mio Sole eucaristico, mi univo a Lui in tutto quello che facevo e quando
mi era possibile, mi fermavo in contemplazione e lo penetravo. Egli se ne compiaceva;
voleva infatti formarmi così: eucaristicamente.
In quel tempo, il Signore mi chiedeva pure di fare ore di adorazione in riparazione:
«Voglio che tu resti con me in un atto continuo di riparazione per tante anime
a me consacrate che non sanno corrispondere alle esigenze del mio amore. Desidero
l'Opera per poter avere un nucleo di anime che vivano la mia immolazione eucaristica.
Io avvalorerò il loro sacrificio con i meriti della mia Passione, le arricchirò
dei tesori del mio Cuore ed esse mi daranno pieno appagamento».
Gesù m'insegnava anche le più piccole cose, mi diceva con quale perfezione
dovevo compiere anche le più semplici azioni. Voleva che fossi dignitosa nel
mio portamento, raccolta e mortificata negli sguardi, che non mi abbandonassi a comodità
anche se molto stanca; insomma, voleva che in tutto sapessi imitare il suo comportamento.
Questo lo facevo tanto volentieri: mi piaceva imitare Gesù, semplice e amabile,
ma nello stesso tempo dignitoso e maestoso.
Si sta tanto bene con Gesù! La sua compagnia è amabile, il suo cuore,
pieno di bontà, racchiude tutte le finezze di un cuore materno.
Che cosa sono le delicate attenzioni delle creature a confronto delle finezze di
amore di Gesù? Egli, che ama tanto le anime, voleva trasfondere in me la sua
stessa carità, specialmente per le predilette: sono queste la tenerezza del
suo cuore.
Il mio direttore spirituale Padre Basile, finché rimase a Bologna, continuò
a studiare attentamente la via che il Signore teneva con me e mi assicurava che era
buona. Egli esaminava le comunicazioni che ricevevo dal Signore, le controllava con
libri di sicura dottrina e le trovava perfettamente corrispondenti. A dire il vero,
quanto alle volte sentivo leggere in quei volumi mi sembrava oscuro a confronto della
luce che Iddio dava al mio intelletto. Questo è tutto a lode di Lui, che si
degnava supplire direttamente alla incapacità, al niente di questa sua povera
creatura.
«Io sarò sempre per te una tenera madre»
Mi tenevo sempre unita
alla mia buona Madre del Cielo, perché maternamente mi aiutasse a far salire
all'Altissimo la mia lode riconoscente. Un giorno, Gesù mi parlò cos?:
«Cerca di investirti delle disposizioni della Madre mia nel ricevere la SS.
Eucaristia dalle mani degli Apostoli: comprensione profonda del proprio nulla (ella
si considerava sempre l'umile, piccola ancella); fede viva, carità ardentissima.
La sua umiltà, la sua dedizione mi attraevano, tanto che la sollevavo sempre
più alla comprensione della Divina Essenza e la unificavo alla mia volontà.
La Madre mia sia la tua guida. Sappi che sei molto amata da Lei. Essa ti vuole avvicinare
sempre più a me; ed io ti dico che in Lei troverai l'aiuto per immedesimarti
al mio Sacramento d'amore».
Da allora, mi affidai senza riserve alla mia cara Madre. Particolarmente quando ricevevo
la S. Comunione, me la sentivo vicina, sentivo che mi comunicava le sue finezze di
amore per Gesù. Da quel cuore colmo di carità si trasfondevano nel
mio gli stessi suoi ardori. Ella voleva guidarmi in quella via di incondizionata
generosità che aveva battuto Lei stessa durante la sua vita terrena con l'accettazione
del sacrificio più eroico, e mi diceva: «Figliola, io sarò sempre
per te una tenera madre; non ti abbandonerò mai. Fidati del mio materno amore,
che desidera per te le più belle ascese di grazia».
Tuttavia, devo affermare che la Madonna è divenuta mia vera guida qui, nell'Arca
Santa. Durante gli anni trascorsi nella congregazione delle Ancelle del S. Cuore
era soprattutto Gesù che mi guidava e mi ammaestrava.
In servizio all'Ospedale Militare
Il flagello della guerra
non potè venire risparmiato. In quel periodo, per ordine dei superiori, mi
dovetti prestare, con altre consorelle, al servizio nell'Ospedale Militare S. Leonardo.
Pensai che in un ambiente come quello la condotta del Signore avrebbe dovuto cambiare,
ma dovetti presto convincermi che mi ci aveva condotta proprio per poter agire su
di me con maggior libertà.
Oltre al guardaroba del primo reparto, mi venne assegnata la contabilità.
Come vidi i libri dei conti a partita doppia, mi spaventai, perché non me
ne intendevo affatto. Come fare?
La Madre generale, alla quale esposi il mio imbarazzo, m'incoraggiò dicendomi
che «mi facessi aiutare da Gesù»,
promettendo che avrei toccato con mano i miracoli dell'obbedienza. Chiesi al ragioniere
qualche indicazione, e riuscii ad assolvere il mio compito in modo soddisfacente.
Sempre, ad ogni controllo, i conti tornarono esatti.
Fu là, in quel periodo agitato di guerra, che mi vennero comunicati i lumi
più importanti e precisi sulle finalità e sulla spiritualità
dell'Opera, e che ricevetti dal Signore i favori più singolari.
Gesù mi aiutava in tutto. Quando dovevo entrare nelle camerate, si metteva
al mio fianco, mi accompagnava avvolgendomi della sua luce, tanto che io vedevo tutti
gli ambienti illuminati. Entrando, notavo di solito un grande disordine; ma, in un
attimo, i soldati riassettavano tutto e, con un contegno dignitoso e rispettoso,
mi salutavano.
Alle volte ne incontravo un gruppo per le scale: si fermavano, chinavano il capo
e non si muovevano se non al mio cenno.
Quando avevo dei moribondi, Gesù veniva al loro capezzale, li disponeva con
la sua grazia e così facevano una buona morte. Egli mi ha fatto capire che
nessuno di quelli che mi erano stati affidati è andato perduto: tutti si sono
salvati!
A lode di Dio, potei fare in quell'Ospedale un poco di bene.
In tutti quei sofferenti sentivo dei fratelli e quando, in certe notti, qualcuno,
nella stretta del dolore lancinante, chiamava ripetutamente la mamma, non sapevo
trattenermi dal portarmi vicina a lui e non lo lasciavo finché non si fosse
quietato o non lo avessi visto morire in pace.
Ricordo che una sera proveniva da una corsia un chiasso da non dirsi. Erano tutti
ragazzi giovanissimi e facevano un carnevale giocando al lancio dei cuscini. Mi raccomandai
al mio Angelo custode, ed entrai. Al mio apparire si fece il più profondo
silenzio. Si nascosero tutti sotto le lenzuola, ed a tratti mettevano fuori la testa
per bisbigliare tra loro: «Chi è entrato?». «La sorella
del primo reparto!».
Le suore avevano il grado di capitano ed erano tenute a riferire ai superiori maggiori
sui disordini che potessero verificarsi, sicché bisognava stare attenti! Poco
dopo li sentii immersi nel più placido sonno, tanto che, inginocchiata in
fondo alla corsia, potei fare tranquillamente la mia Ora Santa.
Una volta, entrando in una sala, vidi un ufficiale che stava per colpirsi con un'arma.
Invocai la Madonna e sull'istante intervenne. La vidi prendere la mano armata di
quel poveretto, trattenerla e maternamente effondere su di lui luci e conforti di
grazia. Non so se quell'ufficiale l'abbia veduta come la vedevo io, ma di fatto si
mostrò completamente cambiato e prosegui la sua vita da buon cristiano.
Molti altri fatti simili avvennero in quel tempo per il bene spirituale dei militari
con l'intervento straordinario della Madonna. Quanto ama le anime questa tenera madre,
e come è sempre pronta a mettere in opera la sua potenza materna per portarle
in salvo!
Vi era in una stanza una finestra con inferriata che prospettava sulla strada. Diverse
volte mi resi conto di quello che succedeva: soldati, ufficiali, si arrampicavano
ai ferri per mettersi in comunicazione coi passanti e dare e ricevere roba, ecc...
Richiami, osservazioni andavano cadendo a vuoto, perciò ricorsi con fermezza
ad un espediente. Feci venire il muratore perché chiudesse quella finestra
e ne aprisse un'altra più ampia e luminosa che dava nell'interno del gran
chiostro. Figurarsi le proteste che me ne vennero! Si arrivò perfino ad avvertire
il Cardinale, il quale mi fece immediatamente chiamare. Come mi ebbe alla sua presenza,
mi rimproverò fortemente, biasimando la mia azione. Lo lasciai parlare senza
difendermi, ma siccome volle poi che gli dicessi il motivo di quel mio atto, spiegata
che ebbi la cosa, finì con l'incoraggiarmi a proseguire in quella linea di
ordine con fermezza e discrezione.
Mi sentivo fra quei buoni militari come a casa mia...
Nel caso della consegna di un'intera truppa per la scomparsa di vari indumenti, essendo
io la guardarobiera, risposi all'ufficiale in maniera da poter ottenere la pronta
libérazione di tutti. Figurarsi la gioia di quei figlioli! Mi rimasero riconoscentissimi,
mi chiamavano la loro madre, si prestavano docili a tutti i servizi, pur di venirmi
in aiuto. Nei giorni di maggior fatica per il guardaroba mi stavano attorno per aiutarmi.
I meno capaci contavano i diversi capi di biancheria e li disponevano con ordine,
i più ingegnosi erano riusciti ad imparare a fare la calza e i rammendi...
e vi era perfino chi faceva la rete e l'uncinetto!
Quante volte, mentre ci si trovava così intenti al lavoro, venivo sorpresa
dalle visite di Gesù! Facevo il possibile per dominarmi in maniera che niente
trapelasse in me di straordinario, ma lo sforzo per tenere tutto nascosto, insieme
alle fatiche, alla tensione per le responsabilità che pesavano su di me, mi
ridussero ben presto ad uno sfinimento estremo.
La Croce luminosa
Per la festa dell'Invenzione
della Santa Croce mi trovavo in una chiesa di Bologna dove ero entrata per una visita
al SS. Sacramento.
Mentre stavo raccolta in preghiera, vidi aprirsi davanti a me uno sfondo, come un
vasto orizzonte, e in questo mi apparve il Redentore nella sua Umanità sfolgorante
di gloria.
Egli teneva la sua destra distesa: da essa uscì una luce di indescrivibile
bellezza che prese la forma di una Croce di una vastità immensa quanto il
firmamento. Osservando bene, vidi che quella luce era di tre impronte ben distinte,
che pure s'affondavano l'una nell'altra. Sentii che ero alla presenza della SS. Trinità,
e la sua azione potente quasi distruggeva il mio povero essere umano.
Osservando ancora, mi fu dato intuire come la Redenzione, sebbene consumata dalla
seconda Persona della SS. Trinità, il Verbo di Dio fatto uomo, pure era opera
d'infinito amore di tutte e tre le Persone divine, ed Esse, in quella forma di Croce,
abbracciavano con infinito amore l'umanità.
Come descrivere la bellezza, la sublimità dell'amore di Dio Uno e Trino per
le sue creature?
Poi, da questa Croce, luce della Divina Essenza, uscivano tanti raggi, anzi, tanti
fasci di luce. Tutte le schiere degli eletti che si erano rese visibili al mio sguardo
in questa immensità di cielo, ne erano investite: ciascun eletto veniva penetrato,
avvolto in quel fascio di luce, luce quasi fuoco, carità ardente che lo rendeva
pienamente beato.
La Madonna stava alla destra del Figlio in una maestà di regina.
Per suo corteggio aveva le schiere degli Angeli e delle Vergini, che venivano investite
dei suoi splendori.
S. Giuseppe era al suo fianco e, sebbene inferiore a Lei nello splendore, pure era
maestosamente rifulgente di una gloria superiore a tutti gli altri eletti.
Poi distinsi S. Giovanni Battista, anch'egli elevato a un'altissima gloria. Quindi
contemplai le schiere degli Apostoli, dei Martiri, dei Patriarchi, dei Profeti, dei
Confessori, e li sentivo cantare armonie meravigliose alla Trinità santissima
per il mistero ineffabile della Redenzione. Essi riconoscevano in quella Croce, Amore
infinito della SS. Trinità, la causa della loro beatitudine, del loro gaudio.
Sì, per la forza di grazia uscita da quella Croce, per i trionfi di quella
Croce nella Risurrezione, essi possedevano tanta felicità!
Oh, la bellezza, il fulgore di quella Croce! Quanto li rendeva felici e come innalzavano
ad essa la loro lode!
Poi Gesù mi disse: «Presenta anche tu il tuo filiale onore alla SS.
Trinità per il dono della Redenzione!».
Lo feci, e mi sentii subito penetrata dal compiacimento del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo.
Quando uscii di chiesa, mi sentivo isolata da tutto: i suoni e le voci mi giungevano
come da lontano...
Gesù mi disse: «Hai compreso quanto ti ho fatto vedere sul mistero della
Redenzione? Voglio che tu lo comprenda bene, perché l'Opera del mio amore
dovrà apprendere da questo mistero, da questa Croce luminosa, linee tutte
particolari. Tieni come tuo faro luminoso la gloria: la Croce sia per te gloriosa,
luminosa; riconosci in essa un trofeo di salvezza e di amore. Il gaudio non toglie
la sensibilità per la sofferenza, ma dà la forza di accettarla con
amore».
La vera causa del mio male
Uno dei medici dell'Ospedale
S. Leonardo, al quale non era sfuggito il mio esaurimento, uscì un giorno
in una frase che mi fece impressione: «Sorella, disse, io capisco che la sua
anima è continuamente unita a Dio; ma guardi che tale unione finirà
per consumare la sua esistenza!». Veramente quella tensione fu la vera causa
del mio male. Gli strapazzi fisici furono il meno.
Intanto, mi sentivo spesso avvertire interiormente: «Presto ti avrò
a mia piena disposizione e potrò fare di te tutto ciò che voglio».
Dopo vari giorni di febbre, la mattina del 14 febbraio 1916 non fui capace di alzarmi
dal letto. Feci telefonare alla Madre generale per chiedere come mi fossi dovuta
regolare, ed ella mi rispose che mi facessi accompagnare a casa da una consorella.
Giunta al convento, appena mi videro in quello stato, mi accompagnarono in cella
e immediatamente si mandò per il medico. Questi giudicò trattarsi di
una malattia molto seria che avrebbe potuto complicarsi in maniera irreparabile,
perché la spina dorsale minacciava di non reggermi più, mentre la febbre
si manteneva altissima. Incominciava quel calvario che, a varie riprese, avrebbe
dovuto prolungarsi fino al 1933.
Restando inesplicabile la vera natura del male, avendo qualcuno avanzato dubbi, venni
sottoposta a visite su visite e agli esperimenti più umilianti. Niente di
anormale fu rilevato nel mio organismo.
Se si fosse saputo come il demonio mi faceva passare le notti!
Tante prove irritarono moltissimo la mia sensibilità e mi riusciva assai difficile
dominare i moti di ribellione che provavo.
Che tormento logorante!
La mattina del giorno fissato per l'inizio degli Esercizi spirituali (fine settembre
1916), nella S. Comunione mi parve di sentir rifluire nel mio fisico nuove forze,
tanto che ne ringraziai il Signore.
Dopo la ricreazione, mi portai con sollecitudine nel guardaroba per preparare tutto
l'occorrente per le consorelle. Avevo appena aperto il grande armadio quando mi sentii
avvolgere da un'ondata di luce e calore divini. Alla mia destra, infatti, stava Gesù.
Mi disse: «Tu non scenderai per prendere parte al ritiro. Ti voglio a mia piena
disposizione. Ti porrò di nuovo sull'altare del sacrificio, anzi, ti aiuterò
a salirvi, perché da sola non potresti; e sarò io il predicatore di
questi esercizi».
Invece che arrendermi con entusiasmo, gli dissi che non avrei mancato di portarmi
dove l'obbedienza mi attendeva, e che non le comunicazioni divine, ma la fedele osservanza
delle Costituzioni sarebbe stata la mia norma fino a tanto che sarei rimasta quaggiù;
e che, per carità, mi lasciasse seguire la regolare osservanza.
Con aspetto disgustato e severo, al primo squillo della campana, mi disse: «Vai,
vai pure; vedrai che cosa saprai fare da sola!».
E si ritirò senza lasciarmi il tempo di chiedergli perdono del dispiacere
che gli davo.
Mi mossi rapida per arrivare puntualmente, ma appena disceso il primo gradino della
scala, sentii venirmi meno le forze e caddi senza potermi più muovere.
Due consorelle che mi videro in quello stato, mi aiutarono alla meglio e mi accompagnarono
in cella; ed io le incaricai di riferire l'accaduto alla superiora. Questa s'impressionò,
perché eravamo state insieme poche ore prima e nulla avrebbe potuto far pensare
ad una probabile ricaduta. Mandò immediatamente a chiamare il medico, che
mi trovò il cuore in condizioni allarmanti.
I professori consultati non riuscirono a comprendere la causa delle mie condizioni
fisiche. La verità era conosciuta solo da Dio. Era la veemenza dell'amore
che mi consumava, dandomi una febbre altissima. In un certo senso mi trovavo meglio
nella privazione, ma anche l'intima sofferenza voluta sostenere con serenità
era tanto acutamente sentita che non debilitava meno il mio povero cuore.
Memorabile Novena di Natale
Da quella sera fino alla
notte di Natale, Gesù non si fece più vedere. Il colmo del soffrire
e insieme le più luminose intuizioni sull'Opera mi vennero date nella novena
precedente la solennità.
Nella notte tra il 15 e il 16 venni ridotta ad uno stato di impotenza estrema. Tutto
il mio fisico era in uno spasimo indicibile, non potevo fare il minimo movimento,
neppure tener aperti gli occhi; sembravo morta ed ero invece in piena conoscenza
e sentivo tutto quello che si diceva attorno a me. Mentre così soffrivo, il
mio spirito si trovava in una luce abbagliante, nella quale mi pareva di penetrare
l'interiore di Maria santissima nel periodo dell'Incarnazione, quando in Lei brillava
il Sole eterno, il Verbo. In senso mistico, direi che si veniva operando in me una
misteriosa maternità in ordine alla fondazione.
Nella vigilia di Natale, mezz'ora prima delle 24, mi apparve Gesù: «Vorrei
portarti con me, toglierti dalla terra dei mortali, ma chi si occuperà dell'Opera
mia? Vuoi tu prestarti al compimento dei miei disegni, oppure preferisci il soggiorno
eterno?».
«Signore, risposi, non scelgo né l'una né l'altra cosa; si compia
in me la tua volontà!».
«Sarai crocifissa, schernita, derisa!».
«Ebbene, se ciò è tuo volere, si compia!».
«Ti lascerai crocifiggere?». E mi mostrava tutto quello che avrei dovuto
soffrire.
Mi permisi di chiedergli se almeno mi avesse lasciato di poter comprendere, nelle
sue varie permissioni, che tutto entrava nella sua volontà a mio riguardo.
«Dovrai comprenderlo», mi rispose.
«Allora, scelgo quello che Tu vuoi!».
Dopo questa offerta, ogni favore mi venne tolto e mi trovai piombata in un'oscurità
così profonda da non poter nemmeno ritrovare il ricordo delle grazie ricevute
in passato. Le diffidenze crescevano... Si fece un consulto, vennero rinnovati gli
umiliantissimi esperimenti medici, ma senza nessun risultato. Fra quei professori
ve n'erano degli increduli, dei massoni, propensi a giudicare la mia misteriosa malattia
una simulazione, e provarono di vincerla con la violenza. Volevano che mi reggessi
in piedi, che camminassi e scendessi le scale.. non dico con quali maniere. Cadevo
a terra e ne venivo rialzata a spintoni, tanto che una volta ne rimasi perfino ferita.
Ricordo che, dopo una giornata quanto mai tormentosa per gli umiliantissimi esperimenti
che i medici avevano fatto sul mio corpo, sostenuti da me col pensiero di tutti gli
obbrobri che il Salvatore aveva voluto soffrire per nostro amore, rimasta finalmente
sola, domandai a Gesù se veramente, come mi si voleva far credere, ero nell'inganno.
Egli allora mi fece vedere l'Opera come un gioiello di finissima fattura, dicendomi
che mediante le mie sofferenze si sarebbe impreziosito quel capolavoro del quale
si sarebbe poi tanto compiaciuto.
Dio c'è e mi ama
Quando il calice fu al
colmo, la pietosa misericordia di Dio volle che fra i consulenti ne venisse uno profondamente
religioso e pio che, illuminato dall'alto, intuì su di me l'azione del soprannaturale
e sconsigliò gli altri a continuare quel trattamento inumano, che mi avrebbe
presto finita, e a lasciarmi alle cure del Medico celeste.
Il mio cuore non reggeva più, e la superiora mise il suo letto accanto al
mio per sorvegliarmi anche la notte, perché le avevano detto che sarei potuta
venir meno da un momento all'altro.
Quanto mi tornava duro il vedermi ridotta a non poter dare alla mia comunità
che preoccupazioni e disagi! Ripetevo a me stessa:
«Quello che accade è volontà di Dio, altissima, sapientissima;
e, senza considerare gli strumenti che adopera, debbo vedere in tutto l'espressione
del Divino Volere, perciò adorare e gioire».
Ma quanto mi costò l'adagiarmi in questo abbandono, pur volendolo con tutta
la forza della mia volontà! Mi ero proposta di sorridere sempre, tanto che
le consorelle credevano che navigassi nell'abbondanza dei favori sensibili, mentre
ero nelle più fitte tenebre, quasi sul punto di arrivare a dubitare dell'esistenza
di Dio. A togliermi questo terribile dubbio era valso questo pensiero: «Se
Dio non ci fosse, non potrei resistere a questo dolore che mi stronca la vita. Dio
c'è e mi ama, ed è Lui che si china a sostenere la sua poverissima
creatura!». Il demonio insinuava: «Come puoi pensare di essere amata
da Lui, se tanto possiamo su di te?».
Mi sembrava una grazia così grande il potermi rivolgere al Signore con la
preghiera! Il pregare mi metteva tranquilla e anche fiduciosa nella divina bontà.
Da diversi Sacerdoti mi era stato consigliato di tralasciare la preghiera vocale,
ritenendola un intralcio per la mia via particolare. Ma io non mi sentivo di attenermi
tranquillamente a questo consiglio e ricorsi con fiducia al mio Divino Maestro. Lui
stesso si degnò istruirmi, e ho sempre seguito le sue direttive. Mi spiegò
l'Ave Maria, parola per parola e me ne fece approfondire tutta la preziosità;
sul Gloria Patri si fermò dei mesi. Che magnifica glorificazione alla SS.
Trinità! Il Pater noster, poi, supera ogni altra preghiera: lo ha insegnato
Lui ed Egli solo può scoprirne il profondo significato.
Entro l'anno seguente fui rimessa in piedi, fino al marzo 1923, quando venni ridotta
ad una immobilità assoluta per dieci anni. Ma fu un seguito di ricadute: per
un poco riprendevo la mia vita comune e le mie ordinarie occupazioni, ma poi improvvisamente
venivo sorpresa da altre crisi che mi costringevano di nuovo al letto.
Apertura filiale col card. Gusmini
Nonostante mi sentissi
compresa dal nostro venerato Arcivescovo, pure non trovavo la forza di aprirmi interamente,
perché temevo sempre di ingannarmi riguardo all'Opera. Chiesi fervidamente
al Signore di venirmi in aiuto, ed Egli si servì di una giovane di Imola:
Elena Rocca, che il Cardinale dirigeva. Personalmente non ci conoscevamo, ma ci eravamo
incontrate attraverso Gesù. (Quando quell'angelica figliola, per la sua eroica
carità, contrasse il morbo della «spagnola» che troncò
la sua giovinezza, avvertii la sua morte, sentendo che un peso enorme veniva tutto
a gravare sulle mie spalle: era il peso dell'Opera).
Dunque, Elena Rocca fece sapere al Cardinale che una religiosa del Collegio S. Giuseppe,
Suor Costanza, lo avrebbe esattamente informato su di un disegno che il Signore andava
manifestando a lei. L'Eminentissimo, appena saputa la cosa, venne e chiese di me;
e, quando mi ebbe alla sua presenza, mi disse subito il motivo di quella visita e
mi chiese:
«Mi hai detto tante cose... Perché tacermi questa?».
«Perché mi sembrava una tentazione da dover rigettare».
«Dato che un'altra mia figliola che dirigo (e l'ho già sperimentata
in maniera da non poter dubitare) me ne parla da tempo ed ora mi ha scritto che sei
tu ad aver ricevuto le rivelazioni più precise, perché il Signore si
servirà di te per attuare i suoi piani, ritengo che non si tratti di una tentazione.
Dimmi, dunque».
Risposi a tutte le domande che mi fece sui fini, sulla spiritualità e sul
come avrebbe dovuto essere impostata la fondazione desiderata dal Signore, ed egli
mi assicurò:
«Se veramente è Dio che vuole quest'Opera, interverrà con la
sua onnipotenza e provvidenza. Da parte mia, tutto quello che potrò in appoggio,
consiglio, interessamento presso i superiori maggiori, lo farò ben volentieri.
Tu, intanto, sta' tranquilla e tienimi al corrente di tutto».
Mi sentii come alleggerita da un grande peso e più forte di fronte alle molte
prove che andavano prospettandosi.
Le elezioni della Madre generale (1917), con molta soddisfazione del Cardinale, che
venne a presiederle, diedero per eletta la Madre Serafina Malaguti, sotto il saggio
governo della quale la Congregazione fece rapidi progressi verso la sua stabilità
definitiva.
Il Porporato cominciò a venire spesso a conferire con me per la fondazione,
ma per mettermi alla prova, mi contrariava sul punto che a me pareva il più
fermo da parte del Signore, il quale con sempre maggior chiarezza mi faceva intendere
di volere anime che si occupassero unicamente e direttamente di Lui in una vita di
contemplazione e di adorazione, mentre egli avrebbe dato la preferenza alla vita
mista e attiva. Alle mie parole sembrava convincersi, ma la volta seguente lo ritrovavo
nella sua opinione.
Sempre in quel tempo, il Card. Gusmini volle esaminarmi sii punti dottrinali per
accertarsi sulla verità delle rivelazioni che ricevevo.
«Tu hai mai studiato teologia?», mi chiese. «Eminenza, solo il
piccolo catechismo». «Eh, tu sei una figliola fortunata e prediletta
da Dio... Sta' tranquilla, ché in fatto di dottrina sei perfettamente a posto:
te l'assicuro io. Il Signore ti dà delle luci molto chiare e profonde. Ringrazialo
pure, perché ti predilige molto».
Quando fummo al 12 marzo 1918 ebbi dall'Eminentissimo l'ordine di confidare alla
Madre generale i piani divini riguardo alla nuova fondazione. Dopo aver molto pregato,
le chiesi un colloquio, ed ella subito mi fece chiamare nel suo studio.
Mi ascoltò con molta attenzione, ma poi rispose che, compresa com'era del
dovere che aveva di tutelare gli interessi della sua Congregazione, non avrebbe mai
potuto permettere che ne venisse alterato lo spirito e cambiate le finalità,
sia pure per altri più elevati e santi. La medesima fermezza trovai nelle
Madri del Consiglio, quando vennero a conoscenza di quanto avevo confidato alla Madre
generale.
Sentii allora tutta la forza delle difficoltà; mi sembrava di morire per la
sofferenza che provavo, non soltanto per me, ma soprattutto constatando che causavo
pena alle altre, mentre il mio cuore, fin da bambina, era stato sempre incline a
consolare e rallegrare tutti. Ma Gesù mi voleva ferma e forte nei passi che
dovevo fare.
Una più autorevole conferma
Nonostante tutto, evidentemente
la grazia lavorava: si andava facendo luce, si appianavano i sentieri; tuttavia,
quanto arduo e contrastato mi si rendeva ogni passo!
Il Cardinale, quando ebbe saputo che dai miei dodici anni avevo avuto come direttore
spirituale mons. Alfonso Archi (allora vescovo di Como), se ne rallegrò, perché
lo conosceva personalmente e ne aveva grande stima; e, sentendo che da quando ero
religiosa non avevo più conferito con lui, gli scrisse, invitandolo a venire
a Bologna perché aveva necessità di parlargli.
Conferirono a lungo insieme e, prima di ripartire per la sua sede, il santo Vescovo
venne a trovarmi al Collegio. Quale prezioso incontro fu quello per me! Mi aprii
con lui come facevo da bambina e lo misi esattamente al corrente di quanto mi stava
a cuore.
Egli m'incoraggiò a lasciarmi adoperare senza riserve al compimento dei disegni
divini, promettendo che mi avrebbe aiutato anche materialmente con tutte le sue possibilità:
promessa che ha mantenuto sino alla fine con una magnanimità commovente.
Il Cardinale desiderò poi una più autorevole conferma prima di dare
il suo appoggio in favore della fondazione e volle che mi portassi personalmente
a conferire con il Santo Padre Benedetto XV.
Il 26 dicembre 1918, la Madre generale ed io partimmo per la capitale. Quando Sua
Santità, letta la lettera di presentazione del card. Gusmini, seppe che due
Ancelle del S. Cuore erano a Roma in attesa di potergli parlare, subito ci fece chiamare.
Conferii a lungo col Vicario di Cristo, ed ebbi il conforto di trovare in lui la
persuasione che fosse veramente Dio a volere l'Opera; disse che in primo luogo avrebbe
dovuto interessarsene l'Arcivescovo, essendo l'approvazione di Roma condizionata
ad un certo periodo di esperimento dalla fondazione; e che si augurava di potervi
apporre l'ultimo sigillo.
Se il Papa prendeva tanto a cuore l'Opera, era giunto il momento di provvedere all'acquisto
del terreno ove fabbricare la casa.
Dal maggio precedente mi era stato mostrato il punto preciso dove sarebbe sorto il
nuovo tempio eucaristico, l'aiuola fiorita di candidi gigli: una parte del parco
della Villa Banzi, adiacente al Collegio S. Giuseppe, diviso in lotti di aree fabbricabili.
Era di proprietà della principessa Ercolani. Il Cardinale la conosceva e propose
di fargliene personalmente richiesta.
Frattanto, era necessario provvedere il denaro occorrente per l'acquisto. Una signora
ricchissima, che di solito non voleva fare offerte in favore delle claustrali, dopo
aver letto una lettera del Cardinale che le domandava un aiuto per la nuova fondazione,
offrì L. 500. Allora non era poco, tanto che l'Eminentissimo, quando lo seppe,
ne rimase meravigliato. Cospicua somma pervenne poco dopo da parte di mons. Archi,
con la raccomandazione che non si ritardassero troppo le pratiche per l'acquisto.
Superate varie difficoltà con l'aiuto del Signore, fervidamente invocato,
la mattina della festa dell'Immacolata 1918, presenti la Madre generale e il suo
Consiglio, il notaio, la principessa Ercolani e altri testimoni, venne firmato il
contratto di vendita del terreno. Il Cardinale si rallegrò della compera fatta,
ma fece notare che, prima di iniziare la fabbrica, si sarebbero dovuti aver pronti
diversi soggetti per il nuovo Istituto, cosa che a quei tempi sembrava assai difficile,
dato che il noviziato delle Ancelle del S. Cuore era chiuso e non vi era che una
sola probanda.
In pochi mesi, entrarono quattordici aspiranti, fra le quali diverse per la vita
contemplativa.
Lavorare le anime secondo la loro specifica vocazione creava non poche difficoltà,
dovendosi tenere tutto segreto per non provocare in nessuna maniera divisioni e contrasti.
Tre volte a Como
Nel marzo 1919 il Cardinale
volle che andassi a Como per conferire con mons. Archi, e la Madre generale mi diede
per accompagnatrice la superiora locale Suor Giacomina Calderoni. Durante il viaggio
mi furono fatte intuire cose terrificanti riguardo ad un nuovo flagello di guerra
che andava preparandosi, a mitigare il quale avrebbe dovuto servire da parafulmine
l'Opera tanto desiderata dal Signore.
Mi vennero anche promessi buoni soggetti per la Congregazione e per il nostro piccolo
drappello. Infatti, delle ragazze che frequentavano il ricreatorio delle suore Canossiane
presso le quali rimanemmo ospiti, tre, in quello stesso anno, entrarono fra le Ancelle
del S. Cuore, una delle quali è la nostra Suor Maria Benigna.
Tornai a Como nel 1920 e nel 1921.
Il potermi confidare con un direttore tanto esperto e saggio mi era di grande incoraggiamento
per sostenermi e farmi procedere nell'ascesa. Avevo notato che le religiose della
Canossa facevano ogni giorno memoria dei sette dolori della Vergine santissima e,
mentre pensavo che si sarebbe potuta adottare quella pia pratica, compresi che le
Ancelle Adoratrici avrebbero dovuto offrire al Divin Padre, nelle varie ore del giorno,
le sette effusioni del Preziosissimo Sangue di Gesù, intendendo unirsi alle
Sante Messe che di continuo si celebrano su tutti gli altari del mondo.
Durante i viaggi, mentre dai finestrini del treno ammiravo gli splendidi panorami
che offrono le nostre Alpi, venivo ammaestrata sulle vicende del mio cammino spirituale,
che sarebbe stato erto come le salite che portavano sulle cime di quei monti altissimi,
per raggiungere le quali era necessario attraversare oscure gallerie, dirupi sassosi,
ossia difficoltà di ogni genere (allora non pensavo ai dieci lunghi anni di
infermità, alle tentazioni, alle prove di ogni specie che mi attendevano).
In quelle vette irradiate dal sole vedevo le sublimi ascese di contemplazione delle
anime consacrate fedeli, e quante meraviglie di grazia mi venivano promesse se fossi
rimasta salda nella fede!
Ripetevo allora con sempre maggior convinzione: «È strano, Gesù,
che per un'Opera simile Tu voglia scegliere me, capace soltanto di rovinare tutto.
Scegli piuttosto la Madre Giacomina!».
Egli sorridendo insisteva che avrebbe voluto un'altra... e che quando essa si fosse
arresa ad assecondare docilmente i suoi desideri, le avrebbe rivelato i segreti del
suo amore, perché potesse comprendere sempre meglio il mistero di carità
racchiuso nel SS. Sacramento.
Di nuovo a Roma
Si sarebbe detta necessaria
una decisione, ma il Cardinale credeva bene temporeggiare ancora, e volle un mio
secondo colloquio con il Santo Padre Benedetto XV, dal quale potessero venire definitivamente
chiariti anche i punti che nel primo incontro non erano stati accennati.
Partimmo il 20 ottobre 1920: la Madre generale, la sua assistente Madre Gaiffier
ed io.
Quella data segnò un nuovo indirizzo per la mia vita spirituale.
Eravamo ospiti delle Religiose di Cluny e, in attesa della vettura che ci doveva
portare in Vaticano, rimasi a lungo nella bella cappella dell'Istituto, del tutto
sola davanti a Gesù sacramentato.
Mi pareva di essere in Paradiso, e non dimenticherò mai quelle ore di adorazione
che passavano veloci come il baleno. Mi sentivo smarrita al pensiero che avrei dovuto
esporre al Sommo Pontefice i motivi che mi facevano ricorrere alla sua suprema autorità
e andavo supplicando il Signore di venirmi in aiuto, di parlare Lui per me... Mi
sentii sollecitata a fare un atto di totale abbandono e venni facilitata in questa
mia incondizionata adesione da una tale comunicazione di divina carità, che
mi sarebbe parso troppo poco fare della mia vita un inno di ringraziamento pur nelle
prove e permissioni più dolorose. «Sempre ed in tutto: Deo gratias»,
proposi.
«Saprai poi valorizzare ogni istante quale dono di amore e mantenerti fedele?»
(chiedeva Gesù). «Sostenuta dalla tua grazia e dalla tua bontà,
confido di potermi mantenere ferma in questo proposito».
Ero tanto presa dall'azione divina da muovermi nella realtà come trasognata.
La bella Roma con tutte le sue grandezze non mi attraeva affatto e facevo uno sforzo
notevole
a seguire le mie buone Madri che andavano richiamando la mia attenzione or su questo
or su quel monumento. La loro voce sembrava giungermi da una lontananza che ero incapace
di superare...
Giunte in Vaticano, la presenza di Dio si fece sentitissima e non mi permise di vedere
niente, se non il Santo Padre, il quale - venuto il mio turno - mi accolse con squisita
bontà. Rimase convinto di tutto quanto gli esposi circa i precisi desideri
di Gesù per l'Opera, si disse dispostissimo a favorirne la sollecita attuazione,
promise di far avere all'Ordinario le necessarie facoltà perché potesse
occuparsi della fondazione, che in un primo tempo non avrebbe potuto essere che di
diritto diocesano; ed a me, che gli chiesi in carità di potermene tornare
nell'ombra della mia umile condizione di conversa, rispose di non potermi dare un'obbedienza
manifestamente contraria alla precisa volontà del Signore.
Queste parole del «dolce Cristo in terra» mi lasciarono tranquilla, disposta
a non ritrarmi da tutto quanto si sarebbe dovuto ancora affrontare, e senza nessuna
mira personale, persuasa com'ero che me ne sarei andata in Cielo prima dell'apertura
della nuova casa.
Di ritorno dall'udienza, mentre stavo scendendo la scala regia, verso di me, che
ero rimasta un poco indietro dalle Madri, vidi dirigersi due Monsignori: l'uno era
mons. Achille Ratti (poi Pio XI), l'altro mons. Giovanni Battista Nasalli Rocca.
Proprio questi mi chiese: «Sono di Bologna loro?». «Sì»,
gli risposi, inginocchiandomi perché mi benedicesse. Dopo avermi benedetta,
mi disse sorridendo: «Brava, brava! Il Signore l'aiuti sempre a compiere la
sua volontà!».
In quel punto mi venne fatto comprendere che in quel prelato, che sarebbe stato il
nostro nuovo Arcivescovo, mi stava innanzi colui che avrebbe dovuto dare inizio alla
fondazione... e che quegli che consideravo allora mia guida ed appoggio (il card.
Gusmini) mi sarebbe stato tolto presto.
Il viaggio di ritorno mi riservò un amarissimo pregustamento delle difficoltà,
delle gravissime prove che mi attendevano. Fu una sofferenza indicibile, che non
avrei potuto sostenere, se il Signore non mi avesse dato insieme la certezza che
per mezzo di quel martirio si sarebbero potute aprire le vie a quelle anime che sarebbero
divenute i candidi olocausti tanto desiderati dal suo cuore.
Il Signore finì con l'adagiarmi sulla Croce
Come ne avevo avuto l'incarico
dal Santo Padre, andai a riferire al Cardinale quanto mi era stato detto; ma, di
fronte a lui, che fino a quel momento aveva ricevuto tutte le mie confidenze, mi
sentii cambiata. Era sofferente, accusava già i sintomi del morbo che ce lo
avrebbe rapito, e sentii che ogni cosa avrebbe dovuto rimanere sospesa. Il 24 agosto
1924 la Chiesa di Bologna fu colpita dal più doloroso dei lutti, con la morte
del suo venerato Pastore. Ne soffrii moltissimo; tuttavia mi parve che la partenza
del Cardinal Gusmini da questa terra me lo avesse portato più vicino. Quando
potei portarmi, insieme alla Superiora, sulla sua tomba, sperimentai un incontro
confortante con quell'anima benedetta.
In seguito, mi sentii stimolata a recarmi al più presto dal Vicario generale
mons. Giovanni Pranzini, già al corrente di quanto mi stava a cuore, dal quale
speravo di ottenere l'aiuto più valido.
Non ne avrei fatto nulla per la ritrosia che sentivo, se la buona Madre Giacomina,
come se avesse letto quanto passava in me, non mi avesse decisa col dirmi: «Andiamo
dove dobbiamo andare!». E mi accompagnò in Episcopio, dove potei parlare
per la prima volta col vescovo mons. Pranzini. In quel primo incontro, lo trovai
molto freddo riguardo al progetto della fondazione.
In seguito, la più giovane del minimo drappello, con la sua infantile semplicità,
riuscì a convincerlo di quanto poco c'entrasse la creatura nei disegni per
l'Opera, come davvero fosse il Signore a volerla e come egli stesso fosse stato scelto
a strumento per il compimento dei disegni divini.
La grazia, assecondata sempre con docilità ammirabile, lavorò potentemente
su quel santo Prelato, il quale, in seguito, non visse più che per l'Opera
e del suo spirito.
Dopo sei lunghi mesi di sede vacante, venne eletto arcivescovo di Bologna il card.
Giovanni Battista Nasalli Rocca. Quando vidi la fotografia del nuovo Pastore, riconobbi
il Prelato che due anni prima avevo incontrato lungo la scala regia in Vaticano e
mi aveva augurato: «Il Signore l'aiuti a fare la sua volontà».
Ricordai di avere intuito che sotto il suo governo si sarebbe attuata l'Opera ed
espressi la mia convinzione. Mi sentii rispondere: «Che dice mai? Il nuovo
Cardinale non vuole nemmeno sentire parlare di clausura!». «Va bene.
Ma Dio, che ha in mano i cuori degli uomini, non potrà, se vuole, servirsi
proprio di lui?».
Avevo questa fiducia e la conservavo in cuore nonostante che solo opposizioni e contrasti
rispondessero ai miei più vivi desideri. Compresi che in quel momento l'unico
contributo che potesse darsi era quello della preghiera e della silenziosa immolazione...
Mi tenevo in una ininterrotta offerta; e il Signore, per avermi a sua disposizione,
finì con l'adagiarmi sulla croce.
Il mattino della solennità del nostro patrono S. Giuseppe, 19 marzo 1923,
tentai di alzarmi, ma mi fu impossibile muovermi; non potevo reggermi. Di natura
ardente, esuberante di forze e di energie (ero sui 37 anni), sul primo momento provai
una ripugnanza invincibile al solo pensiero di dovermene rimanere a lungo immobile
e inattiva.
Bisognava che ogni mattina persuadessi me stessa di dover stare ferma, quieta e sorridente
per quel giorno solo; cosa che per amor di Gesù avrei ben dovuto saper fare!
E così per una catena di giorni che avrei detto eterna...
Il Signore mi aiutava facendomi comprendere che aveva bisogno della mia sofferenza
per i suoi Sacerdoti. Mi tenevo costantemente associata all'offerta eucaristica.
Ma quante amarezze, quante terribili prove nascondevo sotto i miei sorrisi! non dimenticavo
il proposito di un continuo «Deo gratias»... ma il comprendere che la
mia comunità era nella necessità del mio aiuto e che pur studiandomi
di non accrescerle il peso, doveva sentirsi aggravata dalla mia infermità
- sulla natura della quale i medici avevano di nuovo fatto serpeggiare non poche
dubbiezze - mi tornava tanto penoso da rimanerne a volte quasi oppressa.
Primo colloquio col nuovo Arcivescovo
Dopo alcuni mesi, l'Arcivescovo
venne al Collegio per le Prime Comunioni e, prima di congedarsi, chiese se in casa
vi fossero delle inferme. Sentito che ve n'era una: «Mi accompagni da lei,
disse alla Madre, gradirei vederla e benedirla».
Lo accompagnarono nella mia cella. Quella visita fu una vera benedizione. Mi interrogò
paternamente, volle sapere se fossi sempre così contenta come mi vedeva. Risposi
che mi studiavo di vedere bella la volontà di Dio. Trovai poi spontaneo l'aprirmi
su quanto comprendevo che il Signore voleva da me. Si fece serio, si disse estremamente
contrario a favorire simili Opere di clausura, per le quali sarebbero state necessarie
delle autentiche sante.
«Dove me le trova?».
«Eppure, Eminenza, Gesù insiste nel volerla di vita contemplativa!».
«Se davvero è Lui che lo vuole, lo farà capire anche a me, non
è vero? Lasciamoci guidare dagli eventi. E lei preghi molto!».
Lo promisi, sperimentando nell'anima gli effetti di grazia della benedizione che
mi diede nel congedarmi. Mi lasciò sperare che lo avrei riveduto.
Infatti, ogni volta che il Cardinale veniva alla Casa Madre, non mancava di salire
alla mia cella; ed io lo mettevo sempre più ampiamente a conoscenza di quanto
andavo comprendendo nei riguardi della fondazione. Siccome la Provvidenza veniva
in aiuto con considerevoli offerte, venne finalmente il giorno in cui il Superiore
permise di dare inizio ai lavori della fabbrica, incaricando mons. Pranzini di occuparsene
direttamente, in accordo con me.
Il cuore pulsante dell'Opera
Nel periodo della mia infermità,
pur sotto il torchio di indicibili sofferenze fisiche e morali, non ero del tutto
privata degli ammaestramenti divini: il Signore mi voleva attenta alle sue lezioni
e fedelissima a metterle in pratica. Dovendo ogni manifestazione della sua consacrata
dare luce di edificazione, esigeva che mi tenessi in quella correttezza di contegno,
dominio e mortificazione che mi permettesse di offrirmi e immolarmi continuamente
con Lui; anche la mia stanza doveva risplendere per ordine e nettezza come un santuario,
e il letto ove posava la sua piccola ostia doveva essere conservato come un bianco
altare; e diceva: «Queste norme dovranno un giorno servire anche per le figliole
che ti seguiranno».
Indovinando il mio più vivo desiderio, la Madre generale chiese ed ottenne,
anche in considerazione delle aggravate condizioni della Madre Papotti, di poter
conservare il SS. Sacramento in una cappellina che venne amorosamente preparata in
una bella e luminosa saletta attigua alla camera dove stavo, con l'altare ove poter
celebrare la S. Messa. Venne benedetta e inaugurata da mons. Pranzini, ed era considerata
dal piccolo drappello delle future Ancelle Adoratrici come il cuore pulsante dell'Opera
nuova. Solo che potessi muovere stentatamente alcuni passi, mi ci facevo accompagnare
e me ne sarei stata sempre in adorazione e preghiera.
Mons. Pranzini, proprio quando si sarebbe detto indispensabile, venne eletto vescovo
di Carpi; non avrebbe, perciò, potuto più fare molto per noi. Gesù,
dal tabernacolo, ripeteva: «Non puoi fidarti di me solo?».
Sembrava volermi convincere di non fare affidamento sugli appoggi umani, perché
me li avrebbe tolti tutti.
Nel giorno scelto per la posa della prima pietra del nuovo edificio (26 giugno 1925
- anniversario della mia Prima Comunione), mi abbandonai con fiducia piena in Lui,
affondandomi nel suo amore come la pietra che in quel momento veniva affondata nel
terreno, convinta che non avrei saputo né potuto dare migliore collaborazione.
Tutto avrei dovuto pagare con la sofferenza; infatti, le mie condizioni fisiche andavano
sempre più aggravandosi e le difficoltà si moltiplicavano, sì
che il mio cuore doveva sostenere ogni giorno più colpi che non ne dessero
i muratori che lavoravano alacremente all'erezione dell'Arca Santa.
Ma la Provvidenza non ci abbandonava. Mons. Archi ed altri benefattori mi permettevano
di essere fedelissima nel pagamento settimanale degli operai. Negli indirizzi che
davo, poi, non ero che un semplice portavoce: io stessa ero meravigliata notando
come il Signore si interessava di tutto. Quando lo stabile fu terminato e lo si vide
inabitato per tanti anni, si moltiplicarono le richieste, e quante difficoltà
si dovettero affrontare per tener fermo nel non cederlo per altre anche ottime finalità!
Finalmente, dopo tante opposizioni e contrasti, giunse da Roma, nell'aprile del 1933,
il decreto che permetteva l'inizio; ma arrivò quando un mio ulteriore peggioramento
aveva fatto dichiarare ai medici prossima ed inevitabile la mia fine. Non era questa
la più precisa volontà del Signore? Un incontro che, per ordine del
Cardinale, ebbi con il suo segretario mons. Dante Della Casa, mutò inopinatamente
il corso degli eventi.
Aveva chiesto di potermi conoscere e, come seppe dell'Opera in progetto, si persuase
dell'opportunità di una fondazione come quella che il Signore faceva capire
di volere nella sua Chiesa; e se ne fece avvocato difensore presso l'Arcivescovo.
Questi cominciò a venire spesso per preparare le religiose della Casa Madre
al passaggio delle consorelle che aspiravano da tempo alla clausura; ma, date le
mie condizioni, la Madre generale riteneva imprudente darmi un permesso che avrebbe
potuto tornarmi fatale.
D'altra parte, era quello il momento in cui risorgevano più forti e sentite
le mie ripugnanze. Mi lamentavo confidentemente con Gesù:
«Non mi avevi lasciato sperare che, dopo che mi fossi adoperata per l'attuazione
dei tuoi disegni, saresti venuto a prendermi?».
«Non puoi dirlo ancora di avere fatto tutto. È vero che non avrai nulla
da fare, perché sarà sul tuo niente che mi compiacerò operare...
ma devi ancora docilmente prestarti a velare la mia onnipotenza. Non temere, penserò
e provvederò io a tutto. Non lascerò mancare nulla alla comunità,
non ti abbandonerò...».
Nonostante queste promesse, non trovavo la forza di dire il mio sì.
Passaggio all'Arca Santa
L'apertura era stata fissata
per il 3 agosto e alla vigilia la consacrazione dell'altare della cappellacoro e
la benedizione della casa. Era un caldo soffocante. Avevo appena superato una crisi
che avrei creduto preludiasse la fine, quando, proprio mentre il Cardinale consacrava
l'altare, mi vidi accanto il Signore che, con una pazienza veramente divina, voleva
dispormi ad aderirgli senza riserve.
Che tormento ebbi a sostenere! Sembrava che presentissi tutto quello che mi aspettava...
e il cuore fu sul punto di cedere.
Alla fine della funzione, la Madre generale venne nella mia cella, si spaventò
nel vedermi e si diede premura di avvertire il Cardinale del mio stato preagonico;
ed egli trovò giusto che l'indomani non si pensasse a muovermi dal letto.
Quando mi venne comunicata questa decisione, ne ebbi un senso di sollievo. Ma, subito
la mattina dopo, l'Eminentissimo, che era tornato per celebrare sul nuovo altare,
non lasciò il Collegio senza venirmi a vedere. Con una fermezza autoritaria
che non ammetteva repliche, mi diede il precetto di obbedienza di passare io pure,
come avevano fatto le altre, nella stessa giornata, all'attiguo convento.
«Là io tornerò per la Benedizione Eucaristica. Se la troverò
ristabilita, le imporrò di rimanervi, altrimenti la farò immediatamente
ricondurre qui. Ho bisogno di questa prova...».
La Madre generale rimase quanto mai angosciata per questa decisione, ma, sapendomi
obbligata ad obbedire a un'autorità superiore alla sua, finì col dirmi
che mi lasciava libera di fare quello che in coscienza credevo meglio. Comprendevo
benissimo quel che passava in lei e come nascondesse un grande dolore che condividevo
in pieno. Senza le divine finezze, in quel giorno avrebbero dovuto trovarmi morta...
Invece, tutto procedette come d'ordinario.
Nel primo pomeriggio, M. Giacomina venne ad aiutarmi a vestire l'abito e quando fui
pronta mi condusse in cappellina, rimanendomi sempre accanto tanto era in apprensione
per me.
L'attesa si prolungò per circa due ore. Mentre lo adoravo, Gesù mi
illuminò sul suo regale Sacerdozio, sul Sacrificio che si era compiaciuto
rinnovare sul primo altare dell'Opera, così come lo aveva offerto nel Cenacolo.
Quante cose volle farmi conoscere! Non perché ne restassi sgomenta, ma perché
in avvenire, quando fossero potute sorgere dubbiezze circa l'opportunità del
passo che si era compiuto, mi avesse acquietata la certezza di una precisa sua volontà
al riguardo.
Presa da così profonda azione di grazia che mi estraniava completamente da
me stessa, riuscii appena a rendermi conto di quanto accadeva. Mi trasportarono con
una carrozzella. Gli ambienti per i quali venivo fatta passare, custodi di tanti
cari ricordi, erano veduti come le cose che si vedono in sogno... Uno sfinimento
estremo mi spossava ed, entrando per la porta di comunicazione con la clausura, sperimentai
quello che avrei creduto fosse il crollo finale.
Prodigiosa guarigione
Quando potei riaprire gli
occhi, mi vidi innanzi, da una delle finestre del coretto prospettanti sulla cappella,
lo splendore del SS. Sacramento già esposto sul trono. Quasi istintivamente
tentai prostrarmi, ma non mi reggevo.
Rimanevano ancora parecchi gradini da scendere prima di raggiungere il coro, dove
mi sentivo ansiosamente attesa. Le fervide preghiere che si stavano elevando per
me ebbero quella forza di fede che muove le montagne, perché, appoggiandomi
con le mani alla parete laterale ed uscendo in un forte sospiro, udito da tutte:
«Mio Dio!», entrai e andai ad inginocchiarmi innanzi alla cancellata,
dalla parte di S. Giuseppe. In quell'attimo ebbi come un fortissimo capogiro, seguito
immediatamente da un improvviso circolare in me di una corrente di vita novella,
di fresche energie intatte che mi permisero di rialzarmi e dirigermi a passo spedito,
con la sicurezza di chi abbia sempre goduto perfetta salute, in uno degli stalli
del coro.
L'orologio, in quel momento preciso, battè sei tocchi. Erano le 18 del 3 agosto
1933 quando prodigiosamente, dopo 10 anni di infermità, la Divina Onnipotenza
mi rimetteva in piedi.
Una pausa d'indicibile commozione... poi le religiose, fra singhiozzi e lacrime di
gioia, intonarono il Magnificat.
Il Cardinale, immediatamente avvertito di quanto era accaduto, venne a congratularsi
con me e andava esclamando: «Ormai il Signore ha troppo chiaramente significata
la sua volontà perché se ne possa dubitare! Come avrebbe potuto permettere
che queste figliole, che hanno aderito alla sua chiamata, fossero rimaste prive della
Madre, che sola può loro trasmettere le linee genuine per un'impostazione
sicura nella spiritualità dell'Opera? Gesù la vuole qui!».
E Gesù, dal suo trono eucaristico, m'incoraggiava ripetendo le sue promesse,
ed aggiungeva:
«Finché ti terrai come la polvere che le tue figliole calpestano sotto
i loro piedi, farò tutto per te!».
prossima > |