Serva
di Dio |
Scopro di essere fatta per la felicità
Nacqui a Faenza il 15 aprile
1886: giovedì di passione. I miei genitori - Giuseppe Zauli e Rosa Tanasini
-, appagati nel loro desiderio di una bimba, mi fecero battezzare nella nostra parrocchiale
di S. Lorenzo la Domenica delle Palme imponendomi i bei nomi di Palma Pasqua. Ma
sempre e da tutti venni chiamata più semplicemente: Palmina.
Il babbo raccontava che quando mi venne posto in bocca il sale, io ridevo, con stupore
di tutti. Avevo ben ragione di rallegrarmi, perché al ora dal «Triplice
Trono» incominciarono ad effondersi sull'anima mia le correnti vivificatrici
della grazia.
Ero al tutto inconsapevole, ma Iddio mi avvolgeva già della sua predilezione
ed io lo ricambiavo coi miei sorrisi, tanto che in casa i miei si dicevano: «Com'è
contenta di essere venuta al mondo questa bambina!». Ero felice infatti. La
scoperta che feci al primo aprirsi della mia intelligenza, fu quella di essere fatta
per la felicità e ben presto mi venne data l'intuizione, sebbene assai vaga,
di una luce che mi arrideva dall'alto e nella quale avrei trovato l'appagamento pieno
di questa mia sete.
Modestissimo, semplice il mio ambiente familiare. La numerosa nidiata viveva del
lavoro dei genitori, ma non mancava di nulla. Ero la seconda, dopo Vincenzo, e mi
seguirono altri sette fratellini, due dei quali (un bimbo e una bimba) morirono appena
nati; vivi e vivacissimi: Paolo, Domenico, Luigi, Pasquale e Umberto.
Ero considerata come la reginetta della casa.
Ancora piccolissima, capivo già tante cose. Mi sentivo come guidata e ammaestrata
dal di dentro da una voce che m'insegnava la maniera di comportarmi per compiacere
in tutto lo sguardo divino. Non potevo neppure fare i capricci come gli altri bambini,
sebbene mi sentissi portata a farne chissà quanti.
Nella mia ingenuità, credevo che tutti sentissero come lo sentivo io quel
richiamo interno, ma dovetti persuadermi che non era così dal modo di comportarsi
dei miei fratellini, specie del mio Vincenzo, che pur vedevo migliore di me.
La mamma gli raccomandava di studiare, di fare i compiti, ed egli non se ne dava
per inteso, scusandosi col dire che era stanco; prendeva a scappellotti Lino, più
piccolo di lui e vivacissimo; quando gli venivano regalati dei dolci, non pensava
mai a dividerli con gli altri..., e se gli facevo notare che avrebbe fatto meglio
ad obbedire, a portar pazienza, a mortificare la sua curiosità, chiedendogli:
- Ma non lo senti che avresti dovuto fare come ti dico io? -, subito rispondeva:
- Io ho sentito di dover protestare, picchiare, mangiare le mie caramelle e basta!
I miei genitori
Oh, il mio babbo! Avevo
per lui un affetto profondissimo che me lo faceva vedere ornato di virtù non
comuni. Fine nel tratto, dignitoso, riservato (mentre non era che un povero contadino),
cristiano osservantissimo. Da lui ho imparato perfino il modo di camminare a passo
leggero, silenzioso, e tante altre finezze.
La mamma era diversissima di carattere: schietta, semplice, spiccia, veramente romagnola,
tutta compresa della sua sacra missione materna, della quale compiva i doveri con
perfetta esattezza. Era sempre tanto occupata coi suoi bambini, che la custodia di
essi e della casa non le lasciava troppo tempo per pregare. L'amavo teneramente,
ma mi sentivo più compresa, più intima col babbo, al quale somiglio
anche fisicamente: eravamo sempre dello stesso sentire. Egli non avrebbe voluto che
la mamma mi avesse messa a parte delle - sue preoccupazioni, ma... era questa raccomandazione
inutile, perché ella non sapeva tacere e mi diceva sempre tutto: - Che cosa
fai, Palmina? Perché non preghi? Sai, il babbo è nei pensieri perché
gli affari non vanno bene... - Subito riferivo alla Madonna, nella preghiera, quanto
la mamma mi aveva detto e presto venivo a sapere che, contro ogni speranza, le cose
avevano preso miglior piega, sicché dalla preghiera passavo al ringraziamento.
Per due volte la Madonna mi ottenne la guarigione del babbo da gravissima infermità.
Da lui non le avrei certo capite le sue preoccupazioni, perché ricordo di
averlo visto sempre sereno e sorridente. Ricordo ancora la festa che mi faceva al
suo ritorno dal lavoro. Da piccina, la domenica ero invariabilmente rallegrata da
un regaluccio che egli portava per me: per divertirsi lo teneva nascosto, volendo
che lo sapessi trovare da sola. Con quale slancio mi mettevo alla ricerca! Saltandogli
al collo, frugavo in tutte le tasche della sua giacca, finché con un grido
di trionfo riuscivo a scoprirlo in uno dei taschini più interni. Quanto se
ne mostrava contento! Io ci prendevo tale gusto che avrei voluto che fosse sempre
domenica...
Ero anche molto contenta quando il babbo mi portava con sé a passeggio. Andavamo
verso la campagna ed io raccoglievo per lui delle margheritine che gli porgevo con
tenero affetto e che lui, soddisfatto, si metteva all'occhiello guardandole con compiacenza;
e appena a casa, non mancava di comunicare la sua soddisfazione alla mamma.
Quanto erano uniti i miei genitori! Erano veramente esemplari tanto vivevano l'uno
per l'altra.
Sento di dovere la mia vocazione all'educazione ricevuta in famiglia, vero santuario
ove sono stata custodita come un giglio. Fu il babbo ad inculcarmi una profonda devozione
alla Madonna. Spesso mi diceva: «Palmina mia, bisogna amarla molto la Madonna,
perché soltanto chi le vuol bene può essere certo della sua eterna
salvezza». E invece delle favole mi narrava tanti bei miracoli operati per
la sua intercessione. E gli faceva eco la mamma, che brillava nella premura di instillare
in noi bambini la vera devozione alla Madre celeste, alla quale dovevamo «la
buona salute, il benessere materiale e tanti aiuti e benedizioni sulla nostra famiglia»;
e ci assicurava che l'avremmo avuta vicina sempre, specie nei pericoli, se fossimo
stati buoni e obbedienti.
Guarda, Palmina, là c'è il Signore!
Ero ancora piccolissima,
quando il babbo incominciò a portarmi alla S. Messa, e perché potessi
seguire meglio il Sacerdote, mi teneva in piedi sull'appoggío del banco, stretta
dalle sue braccia. Vedendomi tanto attenta all'Altare, una domenica, quando il campanello
diede il segno dell'elevazione: «Guarda, Palmina, mi disse all'orecchio, vedi:
là in quell'Ostia c'è il Signore!». Guardai attentamente e vidi
nell'Ostia una bella luce che compresi essere qualcosa di grande: mi riempiva di
felicità e mi attraeva irresistibilmente. Sentivo che là, in quel Sacramento,
era incentrata tutta la mia vita.
Ricordo che, terminata la Messa, venne esposto il Santissimo; e il babbo, per adorare
il suo Dio nascosto, si prostrò quasi fino a terra. Subito imitai quel gesto
e me ne sarei rimasta sempre là in adorazione. Ma venni poco dopo chiamata:
«Sarà ora di tornare a casa perché la mamma ci aspetta. Che cosa
faresti, se ti lasciassi qui sola col Signore?». - Lo guarderei sempre, risposi,
mi piace tanto!
In seguito a questo fatto, ho sentito sempre una grande attrattiva verso il SS. Sacramento
e la necessità, entrando in una chiesa, di avvicinarmi al tabernacolo contenente
l'Eucaristia.
Mi farò suora
Il mio amore per Gesù
dovette impressionare il mio papà, perché poco dopo, in un giorno di
bufera invernale, essendo venuto a riprendermi dall'asilo, mentre per meglio ripararmi
mi teneva in braccio tutta avvolta nel suo ampio mantello ed io mi stringevo forte
al suo collo, quasi al suo cuore balenasse il timore di avere un giorno a perdermi,
mi chiese: «Che cosa farai, Palmina, quando sarai grande? Starai sempre con
me, non è vero?». Un sì, capivo di non poterglielo dire e, conscia
di quello che dicevo, risposi decisa: «Mi farò suora!». Con un
brivido nella voce, mi chiese ancora: «Ma lo sai quello che vuol dire farsi
suora?». «Vuol dire essere tutta di Gesù!». Mi sentii allora
stringere più forte e, guardandolo in viso, gli vidi le lacrime agli occhi.
Compresi di averlo fatto soffrire e proposi di non parlare mai più di quel
progetto, tanto più che, avendo egli raccontato tutto alla mamma, ella ne
rimase addirittura sdegnata e andava ripetendo inquieta:
«Chi sarà stato a parlare di queste cose alla nostra bambina? Per parte
mia, non lo permetterò mai, mai!».
Ed intanto mi andava seguendo con la massima attenzione e mi avrebbe voluta sempre
sotto i suoi occhi.
Per darmi maggior amore alla casa, incominciò ad insegnarmi quanto avrei potuto
fare per aiutarla un po' in tutto, sicché a cinque anni appena ero già
una piccola massaia.
Ho frequentato regolarmente l'asilo infantile
A tre anni incominciai
a frequentare l'asilo infantile. Nel secondo anno, durante le vacanze, essendo allora
la mamma molto occupata nel lavoro, mi aveva messa presso una buona signorina che
teneva dei bambini, insegnando loro, fra tante altre cose, anche il catechismo.
Come mi tornavano opprimenti quelle lezioni! Non ero capace di seguirle. Quegli esempi
mi urtavano, mi stancavano, e in quell'appartamento di città mi pareva di
essere in gabbia. È vero che, fin d'allora, seduta nella mia seggiolina, facendo
la calza, penetravo con la mente fino al Cielo, spaziando in bellissimi orizzonti,
ma sentivo che la terra non era per me e che non avrei potuto durare a lungo in quel
tormento.
Fu il babbo ad accorgersene e a consigliare la mamma a tenermi in famiglia. Quello
era il mio vero ambiente, dove io vivevo serena. Il mio unico amore era Dio. Amavo
i miei genitori, i fratellini, i parenti, ma li amavo in Dio. Il Signore, fin d'allora,
si faceva conoscere alla mia anima come una grande luce che mi avvolgeva, mi impegnava,
m'incentrava in sé, ed io vivevo in un'atmosfera celeste. Preferivo starmene
in silenzio, in contemplazione; la vista del cielo m'immergeva nella sua grandezza
e mi parlava di Dio. In tutto sentivo che il Signore mi attraeva con una forza irresistibile
e mi riempiva di sé.
Avevo tanto amore alla proprietà, alla nettezza che non ancora di sei anni
riuscivo da sola a tenere in ordine la mia casa ed i miei fratellini. Le amiche della
mamma si meravigliavano di non vedermi mai giocare con le compagne della mia età,
ed ancor più quando, chiedendone a lei il perché, si sentivano rispondere
che avevamo sempre tanto da fare e da parlare insieme... Infatti, fin d'allora, niente
si decideva senza aver chiesto il mio consiglio.
Quando venne il momento di decidere a quale scuola iscrivermi, per le classi elementari,
il babbo espresse la sua preferenza per quella tenuta dalle suore, ma la mamma, dopo
aver visto l'ambiente, si mise in timore che fosse un pericolo per me, date le mie
aspirazioni, e scelse le comunali. Vi fui condotta per l'iscrizione, ma dopo una
quindicina di giorni di frequenza, la mamma, già abituata al mio aiuto, non
volle assolutamente che continuassi con una frequenza regolare, dicendo che, sveglia
com'ero, sarebbe bastato tornarvi un poco verso la fine dell'anno scolastico, tanto
per essere ammessa all'esame di promozione alla seconda classe. Con questo sistema,
nonostante i reclami della maestra, riuscii a superare l'ammissione in quarta. La
licenza di terza elementare è il mio massimo titolo di studio, ma non mi è
mai sembrato giusto farlo valere; perciò sento di dover rispondere a quanti
mi chiedono quali scuole io abbia frequentato: «Regolarmente, soltanto l'asilo
infantile!».
Le lezioni che mi erano permesse e che assimilavo con tanto gusto erano quelle del
catechismo in parrocchia. Il mio desiderio di conoscere il Signore era tanto vivo
che non avrei mai finito di interrogare il mio buon Parroco.
Una fiammella del fuoco della Pentecoste
A sette anni venni ammessa
alla Cresima. Quale profonda impressione lasciò nell'anima mia questo grande
Sacramento! Mi parve che una fiammella del fuoco della Pentecoste scendesse su di
me e mi accendesse tutta, infondendomi una forza di grazia, un senso così
vivo della presenza di Dio che, direi, quasi spontaneamente e sempre con scioltezza,
soavità ed amore, mi sentivo portata a scegliere il meglio, il più
perfetto in ogni mia azione.
Sembrandomi cosa che dovesse appagare Gesù l'avermi accanto al tabernacolo,
avevo chiesto ed ottenuto dalla mamma il permesso di una visita quotidiana al SS.
Sacramento. Mi ci trovavo tanto bene! Senza nemmeno rendermene conto, facevo fin
d'allora delle vere meditazioni, che mi andavano disponendo alla missione che in
seguito mi sarebbe stata affidata.
Accadeva spesso che il Cappellano, incuriosito, venisse a chiedermi che cosa facessi,
e alla mia franca risposta: «Prego!», ribattesse sorridendo: «Oh,
vorrei proprio sapere quello che dici!».
Veniva alle volte anche il Parroco, al quale manifestavo con tutta semplicità
la contentezza che provavo nello stare così vicino a Gesù, e gli dicevo:
«Chissà mai cosa proverà lei, quando nella S. Messa, dopo la
Consacrazione, lo tiene tra le mani!». Evidentemente commosso, si fermava per
insegnarmi con quali preghiere avessi dovuto impiegare il tempo della visita: sei
Pater, Ave e Gloria, una preghiera alla Madonna, un'altra a S. Giuseppe, ecc... Era
tanta la venerazione che m'incuteva quel degno Sacerdote che, mortificando le mie
inclinazioni, cercavo di seguirne i consigli, ma vi riuscivo poco.
«Ti ho scelta a mia sposa»
A nove anni, il 26 giugno
1895, potei fare la mia Prima Comunione.
Quale intimo incontro con Gesù! Quando il Sacerdote mi fu accanto per porgermi
la Sacra Particola, mi sentii come avvolta e penetrata da un sole bruciante e splendente
che comunicò all'anima mia un indicibile ardore. Appena ricevuto il mio Dio,
mi sentii dire da Lui queste dolcissime parole: «Sarai tutta mia come io sono
tutto tuo e per sempre? Ti ho scelta a mia sposa». E mi fece comprendere la
grandezza e la preziosità della consacrazione al suo amore. Aderii pienamente
e ci scambiammo le nostre promesse. Ricordando poi la costernazione dei miei al mio
proposito infantile di farmi suora, esposi a Gesù il mio imbarazzo ed ebbi
da Lui il permesso di non parlarne in famiglia fino a quando mi avrebbe fatto capire
essere giunto il momento giusto, desiderando, per allora, che mi comportassi coi
miei cari come la figliola e la sorella più affettuosa e tenera. «Finché
ti lascio in famiglia, sii pure tutta dei tuoi senza alcun timore, per poi essere
interamente mia quando ti avrò per me».
Ero persuasissima che Gesù parlasse a tutti nella S. Comunione, tanto più
che la nostra maestra di catechismo ci aveva raccomandato di stare bene attente a
quello che il Signore avrebbe detto venendo in noi, perché di solito in quella
prima visita manifesta i suoi desideri.
Quando però, dopo la S. Comunione, ci chiese quello che Gesù aveva
detto, sentii di non doverlo manifestare e mi limitai a sorridere, senza poter celare
la mia contentezza.
Quale contrasto fra le voci allegre e festanti delle mie compagne e quella soave
e armoniosa del mio Gesù!
Qualche giorno dopo, ottenuto a fatica il permesso dalla mamma, potei partecipare
con la maestra e le compagne di catechismo ad una gita all'eremo di S. Paolo, sopra
Forlì, dove aveva dimorato S. Antonio da Padova. Ricordo che, in quella gita,
quello che più attrasse la mia attenzione fu l'improvviso irrompere di una
fresca cascata di acque fino a quel momento trattenuta da un ostacolo. Chiamai tutte
ad ammirare con me, ma non fui compresa. Si trovò che la cosa era molto semplice
e naturale, e lo era infatti, ma a me quella corrente d'acqua svelava un significato
profondo: vi vedevo l'acqua viva della grazia saliente fino alla vita eterna e ne
presentivo gli abbondanti sbocchi e gli effetti salutari su di me e sui fini segreti
di Dio.
«La tua Mamma celeste è qui con te!»
Nei miei colloqui con Gesù,
iniziati con la Prima Comunione e che si andavano ripetendo in quelle successive,
che ben presto divennero quotidiane, quale profondo lavoro di grazia andò
compiendosi in me!
La mia vita mutò radicalmente. Sentivo di portare il Cielo nell'anima, e gli
anni trascorsi nell'attesa di potermi consacrare interamente a Dio furono una continua
comunione di amore con Gesù.
Ma fu la Vergine santissima ad aprire la via ai tanti favori che avrei ricevuto in
seguito.
Ero ancora nei nove anni quando una sera, tornando col babbo e mio fratello Vincenzo
dalla chiesa di S. Francesco, ove era stato festeggiato uno dei Santi Patroni della
città:
S. Savino (erano circa le venti), mi spaventai nel vedere due poveri avvinazzati
che, barcollando con gesti incomposti, ondeggiavano da un lato all'altro della strada.
Temetti che quegli uomini avessero potuto far del male al babbo ed a Vincenzo, mentre
essi, a più ragione, trepidavano per me e si studiavano di coprirmi quel disgustoso
spettacolo.
Ad un tratto, quella scena venne completamente sottratta al mio sguardo e, in un
bellissimo sfondo di luce apparve, proprio visibile ai miei occhi, la Madonna! La
riconobbi immediatamente e non fui nemmeno troppo sorpresa del suo apparire, perché
sapevo, per quanto mi andava ripetendo la mamma, che mi era sempre accanto. Credo
di non averla vista mai più tanto bella. Non posava i piedi in terra, ma rimaneva
a poco meno di un metro dal suolo; era di statura alta, slanciata, tipo bruno, simile
a come si rappresenta l'Immacolata, ma non così seria, perché mi guardava
con un inesprimibile sorriso. Era vestita di un abito e velo azzurro con cintura
a ricami d'oro di finissima fattura ed aveva in capo il diadema regale. Pareva proprio
una regina e tutto in Lei mi attraeva irresistibilmente. Non sentii la sua voce,
ma dallo sguardo, dal sorriso, dall'atteggiamento, compresi che voleva rassicurarmi
e darmi prova della sua protezione. Era come se dicesse: «Bambina mia, non
aver paura, la tua Mamma celeste è qui con te, ti assiste e ti difenderà
sempre!».
Naturalmente ero così attratta da lei che non potevo distoglierne lo sguardo;
e il babbo, che da quella parte non vedeva che quei due poveretti, si studiava in
tutti i medi di distrarmi.
La Madonna mi accompagnò fino alla porta di casa, ed io cercai di rimanere
ultima per continuare a vederla. Disparve, ma le impressioni di grazia che si erano
impresse nel mio spirito perdurarono e furono quanto mai salutari.
Da quel benedetto incontro, notai una grande diversità in me; incominciai
a comprendere tante cose, alle quali di solito non si pensa in quell'età...
e non fui più bambina.
La sola vista della Madonna mi aveva fatto intuire quanto il Signore ami le anime
e compresi pure la fatuità di tutte le gioie di quaggiù. Gli affetti,
anche più santi, li sentivo incapaci di saziare il mio cuore; inoltre, riflettendo
e osservando, non tardai ad accorgermi che sulla terra tutto finiva, che la morte
veniva a separare anche i cuori più uniti, e che l'amore delle creature non
avrebbe mai soddisfatto le mie aspirazioni. Avevo bisogno dell'Infinito, dell'Immutabile,
di avere per me Colui che solo non mi sarebbe venuto meno in eterno.
Non dissi a nessuno quanto era avvenuto perché, sebbene io credessi che quei
favori fossero comuni a tutti, capivo però che avrei dovuto tenerli segreti.
«Non temere la rabbia di quel cane!»
Al mattino, dopo aver partecipato
alla S. Messa, dovevo trovarmi in casa per l'alzata dei fratellini. Ricordo che una
mattina assai presto, mentre andavo frettolosa verso la chiesetta dei Cappuccini,
mi si fece incontro un grosso cane nero sbucato improvvisamente dalla siepe, in atto
di volermi aggredire se avessi tentato di proseguire la strada. Mi raccomandai silenziosamente
al mio Dio, ed ecco accostarsi un poverello dall'aspetto mite, dolce, che tendeva
la mano chiedendo l'elemosina. Gli feci una piccola offerta ed egli, guardandomi
rispettosamente, mi disse: «Grazie. Un giorno ti ricompenserò. Non temere
la rabbia di quel cane. Se potesse, ti divorerebbe, ma non può nulla contro
di te!».
Poi, rivolto a quella bestiaccia che continuava a fissarmi con occhi di fuoco: «Vattene!»,
gli comandò, ed io non vidi più né il buon vecchietto né
il cane spaventoso.
Altre volte esso tentò di impedirmi di andare alla S. Messa, e fu veduto anche
dalle persone attempate che in quell'ora frequentavano la parrocchia, le quali alzavano
la voce per spaventarlo, raccomandandomi di mettermi al sicuro; ma, come mi era stato
promesso, non mi avvenne mai nulla di male. Se l'avesse saputo la mamma... addio
permessi di uscire da sola!
Era talmente gelosa della sua bambina, che mi avrebbe voluta di continuo sotto i
suoi occhi. E queste sue esigenze non le allentò neppure quando fui più
grande, tanto che giunse a negarmi il permesso di uscire di casa perfino nei solenni
festeggiamenti di S. Pier Damiani quando, per l'occasione, venne a Faenza il cardinale
Domenico Svampa.
Quella volta piansi dal dispiacere e ricordo che la mamma, in tono profetico sentenziò:
«Sta' quieta, Palmina; ne vedrai dei cardinali!».
Come la grazia lavora nell'anima
In famiglia ero circondata da tutti di ogni più delicata finezza. Il babbo
era tenerissimo con me. Ogni volta che tornava dal lavoro, era un incontro gioioso,
uno sfogo paterno di amore per la sua figliolina. Eppure aspiravo ad un amore che
mi avesse interamente soddisfatta; comprendevo che nessuna creatura umana avrebbe
potuto darmi quanto cercavo, e lo stesso affetto santo dei miei genitori e fratelli
non faceva che accrescere il desiderio del possesso del Sommo Bene. Soltanto in chiesa,
davanti al tabernacolo, mi sentivo nel mio centro.
Una mattina, tornando dalla spesa, mi fermai in un coretto della mia parrocchia e
vi stavo tanto bene perché potevo più liberamente seguire i miei pensieri.
Venni raggiunta dal Parroco, che, avendomi scoperta lassù, m'interrogò
su quello che facevo e pensavo e, per aiutarmi a passare meglio il tempo, mi portò
un libro. Vedendone il titolo: «Come la grazia lavora nell'anima», dissi
subito che m'interessava molto, il che lo fece sorridere, e soggiunse: «Prima
leggilo, poi la prossima volta che c'incontreremo, mi saprai dire se ti piace».
La settimana seguente, incuriosito, m'interrogò su come erano andate le cose
riguardo a quel libro. Con tutta semplicità risposi che il solo titolo dei
capitoli, qualche brano di Vangelo e versetti di Salmi che vi aveva trovato, mi avevano
aperto un bellissimo orizzonte di luce e mi avevano fatto comprendere le vie della
grazia molto di più di quanto avessi potuto leggendo quelle spiegazioni troppo
difficili per me. A questa risposta il mio buon Parroco non seppe, nascondere la
sua commozione, tanto che io, essendo rimasta convinta di avergli dato dispiacere,
raccontai tutto alla mamma; ed ella: «Ma dovevi parlare così di un libro
che ha scritto lui?». Capii di essere stata imprudente e proposi fra me di
non manifestare più tanto facilmente quanto sentivo.
Trovai finalmente Colui che cercavo
Una sera di maggio (avevo circa dodici anni), il babbo volle che uscissí con
mio fratello Vincenzo per una breve passeggiata. Di solito, mi piaceva tenere gli
occhi rivolti al cielo, quasi in cerca del mio Dio... Ed ecco che in quella sera
il cielo parve aprirsi e, in uno sfondo di luce chiarissima, mi apparve Gesù
circondato da una schiera di vergini e di una tale bellezza da non poterlo dimenticare
mai più. Io ero rapita. Mi disse: «Osserva se creatura umana può
prevalermi». «O Signore, gli risposi, tu sai che ti ho scelto come mio
unico Amore!».
«Sì, fin da questo momento sarai sempre tutta mia». E mi mandò
tre riflessi di luce che mi accesero tutta. Poi scomparve. Tutti i quadri che rappresentano
il Cristo, anche quelli degli autori più celebri, sono niente a confronto
della Bellezza divina che ammirai in quella visione. Finalmente avevo trovato Colui
che la mia anima cercava, e nessun sacrificio mi sarebbe parso troppo grande pur
di tener fede alle promesse che, dopo quelle della Prima Comunione, tornammo allora
a scambiarci. Quante cose mi furono fatte comprendere! Fra le altre, quella che la
mia vita di grazia sarebbe stata come una bella aurora serena.
Mio fratello dovette accorgersi di qualche cosa; ma, senza farmi domande indiscrete,
vedendo la mia emozione, si affrettò a riportarmi a casa.
Da quel punto, la verginità, che solo a sentirne parlare nelle prediche, fin
da piccolina, aveva esercitato un gran fascino su di me, mi divenne di un'attrattiva
irresistibile. La vedevo come il più sublime splendore dello stato religioso,
comprendendo che per essa l'anima interamente consacrata al Signore avrebbe potuto
fare un gran bene, sicché giunsi al punto di decidere di fuggire di casa per
seguire la mia vocazione. La biografia di S. Chiara, donatami dal mio Parroco, mi
diede l'occasione di potermi confidare con lui e dirgli che, come quella santa aveva
lasciato tutto a 16 anni, se mi avesse aiutata, io avrei fatto altrettanto a 12...
Rimase quasi sgomento e m'impose di non riparlargliene più fino ai miei diciotto
anni.
Quale violenza dovetti farmi allora! In certi momenti, quella troppo lunga attesa
mi diveniva insostenibile e più di una volta venni sorpresa con un'espressione
che tradiva la mia intima sofferenza.
Emisi il mio voto il giorno dell'Annunciazione
Quando il Cappellano dal
quale mi confessavo dovette lasciare S. Lorenzo per la parrocchia assegnatagli, si
diede premura di indirizzarmi a Mons. Alfonso Archi, allora Penitenziere maggiore
e canonico della cattedrale. In quel santo ministro del Signore trovai il mio primo
vero direttore spirituale. Egli, che conosceva a fondo le vie della grazia, mi aiutò
ad aprirmi interamente; non si accontentava di una semplice accusa, ma esigeva un
racconto particolareggiato delle grazie che andavo ricevendo, studiandosi di mantenermi
in molta semplicità e umiltà, tanto che io credevo che tutti quelli
che si comunicavano ricevessero grazie ben maggiori.
Il giorno della confessione era per me colmo d'indicibile gioia. La grazia mi si
comunicava in maniera che perfino la mamma l'avvertiva, e diceva: «Il sabato,
non so quello che tu abbia addosso!».
Quando Mons. Archi sentì come il mio cuore fosse già impegnato con
Gesù fin dalla mia Prima Comunione, dopo avermi molto provato, mi permise
di emettere a 13 anni il voto perpetuo di verginità, regalandomi un prezioso
libretto che custodivo gelosamente come un tesoro per le belle pagine che conteneva
sulle vergini consacrate.
Emisi il mio voto il giorno dell'Annunciazione. Dopo la S. Comunione, mentre ne pronunciavo
la formula, un raggio di luce mi avvolse; poi mi vidi vicina la Madonna che presentava
ella stessa il mio voto al Trono di Dio. Vidi che il Signore lo accoglieva con compiacenza
e faceva scendere in me una pienezza di grazia che mi possedeva e mi sollevava in
Lui. La Madonna mi fece comprendere che quella era una piccola partecipazione di
quell'impronta di azione divina che aveva provato Lei nell'Incarnazione del Verbo.
All'Istituto Righi
Da quel punto, la mia attesa
divenne più ragionevole, tanto che chiesi alla mamma di farmi frequentare
l'Istituto Righi per imparare taglio e cucito da uomo, quanto fosse bastato per le
necessità della famiglia. Ella accondiscese ma, dopo due settimane, per timore
che quell'ambiente favorisse le mie propensioni per lo stato religioso, si disse
soddisfatta di quello che avevo imparato e mi tenne a casa, dandomi poi da confezionare
biancheria ed abiti per il babbo e per Vincenzo. Se il Signore non mi avesse aiutata,
non vi sarei certo riuscita!
Nelle domeniche frequentavo il ricreatorio di quelle religiose e, avendo sentito
dire che tra loro ve n'era una in fama di santa, arricchita di lumi profetici, desiderai
di poterla incontrare per parlarle un poco. Quando finalmente potei vederla, mi fece
una certa impressione quello che mi disse.. Come se mi leggesse dentro e senza che
io le avessi detto una parola, mi assicurò che avevo una vera vocazione, che
avrei corrisposto e che, dopo un primo periodo di dolcezze, Gesù mi avrebbe
crocifissa. Più tardi, quando mi trovai sotto le più forti prove, ricordai
quella predizione...
Pammina, finito maitosso!
Avevo un concetto tanto alto delle persone consacrate; ritenevo che vivessero quasi
come i Santi del Cielo. Una volta, passando per la strada ove si trova il Monastero
di S. Umiltà, m'inginocchiai sulla soglia, pensando che là dentro vi
erano delle anime tutte di Dio.
Il Sacerdote poi lo vedevo quasi come lo stesso Gesù, non riguardo alla persona,
ma per la sublimità del carattere che riveste. E ciò fin dai miei primi
anni. Evidentemente, fin d'allora, il Signore incominciava a farmi presentire gli
intimi rapporti che la mia vocazione avrebbe avuto col Sacerdozio. Il troppo breve
periodo di direzione spirituale di Mons. Archi (che venne poi eletto Vescovo di Comacchio)
valse a darmi linee molto sicure. Studiandomi di seguirle fedelmente, la mia vita
di famiglia divenne la migliore preparazione a quella che avrei in seguito condotta
in comunità.
La mattina mi alzavo presto e non rimanevo mai meno di due ore in chiesa. Nell'ultimo
periodo portavo con me il fratellino più piccolo, che si destava al primo
sorgere del sole come gli uccellini, rifornendolo di una pagnottella che serviva
da... orologio, perché, se mi accadeva di attardarmi un po' troppo nei miei
colloqui con Gesù, ne venivo riscossa da una vocina che risuonava improvvisa
nel silenzio della navata: «Pammina... Finito maitosso!». Era allora
un sorridere generale, e ne ridevo anch'io.
Sebbene avessi ad attendere alle varie faccende domestiche ed ai fratelli, tutto
procedeva in una pace indisturbata e trovavo anche il tempo di fissarmi ogni tanto
al campanile della Parrocchia, visibile dalla finestra della mia camera, per qualche
visita spirituale al SS. Sacramento.
Con Vincenzo nei dintorni di Faenza
Nei giorni di festa, per
poter adorare Gesù nei tabernacoli delle chiesette più abbandonate,
quando la stagione lo permetteva, andavo con mio fratello Vincenzo, a piedi, o guidando
lui un somarello, nelle campagne nei dintorni di Faenza. Meravigliose passeggiate!
Io mi fermavo in chiesa finché dopo aver giocato coi suoi compagni, Vincenzo
tornava a prendermi. Quanto mi sentivo unita al mio fratello maggiore! Lo amavo tanto
che una volta chiesi a Gesù se gli dispiaceva quell'affetto. Mi rassicurò
col dirmi che anzi, ne aveva piacere, perché ciò valeva a custodirmi
meglio.
Una delle gite più belle fu quella che facemmo in una festa dell'Annunciazione.
Quella mattina, durante la S. Messa, io avevo ricevuto uno dei favori più
segnalati. La Vergine santissima mi aveva dato una certa comprensione del Mistero
che si era commemorato ed io ero rimasta tanto colma di gioia da non sapere come
tener nascoste le meraviglie che avevo vedute.
Nel pomeriggio, mio fratello propose una passeggiata sulle colline per raccogliere
le viole; e la mamma, dopo aver raccomandato che si tornasse prima di sera, ci lasciò
andare.
Arrivammo in un luogo incantevole, dal quale si godeva una vista suggestiva: il cielo
era azzurro e senz'ombra di nubi, la campagna di un tenero verde, l'aria profumata
di violette e di erbe fresche. Tutta la natura aiutava tanto ad elevarsi a Dio.
Mi si affacciò la scena che avevo ammirata al mattino e rividi la Madonna
e il suo radioso sorriso. Allora incominciai a parlare di Lei al mio Vincenzo, che
mi seguiva col più vivo interesse. Eravamo uniti nella più fraterna
confidenza quando ad un tratto, compreso di quanto gli dicevo, esclamò: «Oh,
come stiamo bene noi! Quant'è bello intrattenersi in queste meraviglie! Penso
che, se tu non avrai altri progetti per l'avvenire, io rimarrò sempre con
te, per poter trascorrere la nostra vita occupandoci dei santi argomenti che tanto
ci confortano». Gli risposi che ben volentieri sarei rimasta con lui, se il
Signore non mi avesse già chiesta per sé.
«In tale caso, soggiunse, non potrei oppormi, e ti prometto che ti aiuterò
ad effettuare il tuo proposito. Sta' tranquilla, penserò io ai genitori e
ai fratelli!». E mantenne la sua promessa.
In seguito, soltanto con lui parlavo della mia vocazione, e mi sentivo compresa.
La mamma si meravigliava che avessimo sempre tante cose da dirci, e non avrebbe certo
immaginato che io cercavo di prepararlo a sostituirmi nel momento in cui, per seguire
l'invito del Signore, avrei dovuto lasciarla...
Il Signore non mi voleva fra le suore ospedaliere
Mons. Archi continuava
a venire a Faenza ogni quindici giorni, ma siccome raramente potevo confessarmi da
lui, m'indirizzò a Don Maccolini. Questi era tanto diverso da Mons. Archi.
Ma fin d'allora, Gesù voleva che, più che sulle creature, mi appoggiassi
a Lui, che mi era veramente Maestro, Direttore e Guida. La sua era una linea di tale
chiarezza da farmi sempre scorgere senza incertezze la via da tenere e non mi legava
per niente, tanto che, se mi avesse chiesto qualcosa che la mamma non avrebbe permesso,
avevo il coraggio di dirgli che dovevo obbedire. Egli non si offendeva di queste
resistenze, dicendomi che per amore di obbedienza si era lasciato crocifiggere, e
che rimanessi pure tranquilla, perché avrebbe poi saputo Lui farmi fare la
sua volontà.
Quando ebbi 16 anni, il mio confessore ritenne di avermi provata abbastanza e mi
chiese in quale Istituto volevo entrare. Pur comprendendo che quella non sarebbe
stata la mia via, risposi che mi piacevano le suore dell'ospedale. Incerto egli stesso,
fece però domanda alle Vincenzine di Meldola, e andai a presentarmi. Quale
colpo al cuore ebbi quando venni condotta nelle corsìe dell'ospedale! Non
era certo là che il Signore mi voleva, ma, ormai ero già stata accettata...
Venni tolta dalla mia perplessità in maniera imprevedibile, che dimostrò
chiaro l'intervento di Dio. Giunse a quella comunità religiosa una circolare
dei superiori maggiori che proibiva l'accettazione delle aspiranti minorenni, e non
se ne fece nulla.
Il confessore allora mi animò a pazientare, dicendomi di rimanere tranquilla
perché, nel momento opportuno, vi avrebbe pensato lui. Mi valsi dell'ultimo
periodo che trascorsi nella mia casa paterna per fare ai miei e a quanti cercavano
di me per aiuto e consiglio il maggior bene possibile, particolarmente a sollievo
delle persone sofferenti.
Intanto il Divino Maestro mi lavorava profondamente, dandomi anche una conoscenza
della vita e delle miserie umane, quale nessuno poteva supporre che potessi avere.
Ma,
il vedere ancora tanto lontana l'effettuazione del mio sogno mi rendeva triste, anche
se, per un'energica reazione che m'imponevo, riuscivo a mostrarmi serena, espansiva,
in modo tale da confortare e rallegrare i miei cari.
Hai risposto bene!
Non è stato alla
cieca che ho scelto per mia porzione il donarmi esclusivamente al mio Dio. Il mio
ambiente familiare, sano, religioso, era aperto alla vita. Mio fratello maggiore
portava in casa i suoi compagni ed amici; avevo una corona di fratellini per i quali,
specie per l'ultimo, facevo tutto come una mammina...
Per mettere alla prova anche il mio cuore, Gesù permise che un ottimo giovane,
che abitava nel palazzo della signora Brussi, provasse una vera, profonda affezione
per me. Ne fui avvertita dal Signore stesso, che mi disse trattarsi di un affetto
buono, retto, che non avrei potuto trovare migliore e che mi lasciava pienamente
libera di scegliere. «Non parliamone neppure, risposi. Non ci siamo forse promessa
reciproca fedeltà fin dalla mia Prima Comunione?».
Dovendo andare da quella signora, le feci comprendere che avrei preferito mandasse
la cameriera ad aprirmi la porta, perché quel giovane ne approfittava per
farmi dei complimenti che non avrei voluti...; e anch'ella, tanto buona e pia, mi
diede ottime informazioni.
Ma ecco che un giorno il giovane riuscì a manifestarmi il suo sentimento e
le sue intenzioni. Senza punto turbarmi, lo ringraziai e gli dissi che ero già
impegnata... Avevo circa 18 anni.
La sera stessa, mentre rincasavo accompagnata da mio fratello, mi si accostò
Gesù e si pose al mio fianco. «Hai risposto bene, mi disse, perché
veramente tu sei già impegnata!».
Anche da questo incontro, compresi che era venuto il tempo di prendere decisamente
la mia strada e, come eravamo d'accordo col mio Parroco, tornai a parlargli della
mia vocazione. Fu allora che egli, che conosceva e apprezzava tanto la Congregazione
delle Ancelle del Sacro Cuore, approfittò dell'occasione della visita della
Madre generale alla Casa di Faenza per parlarle di me. Era il mese di marzo, consacrato
al caro S. Giuseppe, protettore della Congregazione. La Madre mi chiamò per
un colloquio, al termine del quale mi lasciò la certezza di venire accettata.
Scelsi per il mio ingresso la bella solennità dell'Assunta, ma ritenni prudente
non parlarne ai miei che poco prima della partenza, preparando intanto il terreno
con molta preghiera e sofferenza. La sola prospettiva di un prossimo distacco dalla
mia famiglia mi costò in maniera inesprimibile...; in certi momenti mi pareva
che ne sarei morta; eppure, pur di seguire la divina chiamata, avrei spezzato anche
il mio cuore.
Mi lascerete partire il 15 agosto?
Il primo agosto del 1905
mi si porse l'occasione di poter parlare al babbo senza che la mamma udisse, e lo
pregai di portarsi dal mio confessore, perché desiderava parlargli. A quell'annuncio,
chinò la testa e rimase molto pensieroso; poi uscì con Vincenzo. Appena
di ritorno, mi chiamò a sé e, abbracciandomi teneramente con le lacrime
agli occhi, mi riferì come fosse andato quel colloquio. Udita dal Sacerdote
la mia decisione, di primo impulso avrebbe voluto opporvisi, ma sentendo essere quella
la volontà del Signore, aveva finito col piegare il capo.
«Dunque, gli chiesi stringendomi a lui, mi lascerete partire il 15 agosto?».
«Sì... Ma come faremo con la mamma?... Non ti trovi bene nella tua casa?
Non avresti qui tutta la libertà di seguire ugualmente le tue aspirazioni?
Vorresti che ti lasciassimo maggior tempo per stare in chiesa? Sarei dispostissimo
ad accontentarti in tutto, purché restassi con noi!».
«Sto troppo bene, babbo, in casa mia... Ma sento di dover seguire la chiamata
di Dio per essere certa di fare la sua volontà».
«Ho capito, rispose, e... non mi opporrò più. Resta qui a pregare,
mentre cercherò di convincere la mamma». Poco dopo mi giunsero le grida
accorate, i singhiozzi strazianti di lei, che andava ripetendo: «No, no! Non
permetterò mai che la mia Palmina mi lasci prima dei suoi 21 anni! È
ancora troppo giovane, ed io, tu lo vedi, non posso fare assolutamente senza di lei!».
Il babbo la lasciò sfogare, poi cercò di farla ragionare dicendole
che, trattandosi di una vera vocazione, non avrebbero potuto resistere a così
precisa volontà di Dio, e siccome il sacrificio era per tutti, e sentitissimo
dalla loro figliola, le chiedeva di dominarsi il più possibile per non farla
soffriré di più.
Per quel giorno intero la mamma riuscì a non parlarmi di nulla. L'indomani,
invece, alla prima occasione che avemmo di trovarci sole, sfogò tutta la piena
della sua esacerbazione.
Fra le lacrime, mi disse che se l'avessi lasciata, ne sarebbe morta... Piansi con
lei e, come m'ispirò in quel momento la grazia, le parlai in maniera da riuscire
pian piano ad acquietarla, tanto che si offrì lei stessa ad accompagnarmi
dal nostro vescovo Mons. Gioacchino Cantagalli per una visita di commiato, forse
con la segreta speranza di ottenere, almeno per altri due anni, la mia permanenza
in famiglia. Quel santo Prelato ci accolse con paterna bontà e, udito il motivo
di quella visita, volle conferire con me per esaminarmi sulla mia vocazione. Ne rimase
soddisfatto e mi disse: «Va' pure, figliola; è proprio il Signore che
ti vuole, ed io ritengo abbia particolari disegni su di te. Una volta donata a Lui,
guarda di non riprendere mai il tuo dono. Non accontentarti di essere una buona religiosa:
tu devi farti santa!». Lo ripetè tre volte, anche in presenza della
mamma, che si senti consolata e fortificata da quella autorevole conferma.
Strenua lotta
Parve che le nubi andassero
diradandosi, ma io sentivo di dovermi tener pronta ad altri assalti. Man mano che
passavano i giorni, vedevo aumentare l'angoscia della mamma, la quale, un giorno,
non potendone più, corse dal Parroco per scongiurarlo a persuadermi di differire
la partenza. Commosso da quello schianto, mi fece chiamare e non lasciò nulla
d'intentato per rimuovermi dalla mia decisione. Mi portò avanti motivi forti,
gravi, parlandomi nel nome stesso di Gesù. Rimasi irremovibile, limitandomi
a rispondere: «Le pare giusto, signor Parroco, che io lasci aspettare il Signore
che mi chiama da tanto, tanto tempo? I miei genitori, che amo più di me stessa,
li ho affidati alla bontà del mio Dio, e sono certa che, dandomi tutta a Lui,
penserà Egli stesso, assai meglio di me, ad aver cura di loro».
Fu questa una delle lotte più sentite...
Il giorno di S. Lorenzo, titolare della parrocchia, lo riservai alle visite di congedo
ai parenti. E si giunse alla vigilia del gran giorno, all'indimenticabile sera degli
addii, l'ultima che avrei trascorso sotto il tetto paterno.
Vincenzo, la mamma, il babbo, erano inconsolabili, mentre i fratellini godettero
delle squisite finezze che si prodigarono in quella circostanza, come ad una festa.
«Io ti saluto questa sera, scattò a dire il babbo, perché domattina
non ne avrò la forza!»; ed a me, che mi ero inginocchiata ai suoi piedi
per chiedergli perdono di tutti i dispiaceri che gli avevo dato, disse: «Il
primo dispiacere è questo che mi dai ora, ma essendo tu, come tutti i miei
figli, prima del Signore che mia, è giusto che non mi opponga alla Divina
Volontà. Va' in pace, figliola mia, e con la mia benedizione!».
La mamma volle fare altrettanto, ma con quali singhiozzi! Ci ritirammo per prendere
riposo, ma quella notte fu per me una continua preghiera. Soltanto nell'unione col
mio Dio potei trovare la forza per affrontare il grande sacrificio.
Pammina, tà chì! Pammina, tà chì!
Alla prima alba dell'Assunta,
anche Vincenzo era già in piedi per trovarsi pronto ad accompagnarmi. Non
avrei voluto svegliare nessuno, ma, quando mi avvicinai al lettino del mio fratellino
più piccolo per dargli un ultimo bacio, la mamma, che spiava ansiosa ogni
mio movimento, scoppiò in un pianto così forte da destarlo: «Stringila,
stringila forte, Berto, perché vuole andare via!». Lui allora mi cinse
il collo con le tenere braccia e con tutte le forze, tenendomi stretta a sé,
andava gridando: «Pammina, tà chì! Pammina, tà chì!».
Era proprio il momento di dar prova del mio amore al Signore, e per Lui solo trovai
la forza di svincolarmi da quella stretta e di varcare la soglia di casa...
Andammo con Vincenzo in S. Pietro per la S. Messa. Là, ai piedi della Madonna,
rimisi tutti e tutto sotto la sua protezione potente; e, quando ebbi ricevuto Gesù,
mi sentii indicibilmente fortificata. Ci avviammo alla stazione ove, con mia grande
sorpresa e commozione, trovai ad attendermi il mio carissimo babbo. «Come mai
siete venuto fin qui?», gli chiesi riuscendo appena a dominarmi. «Vi
ho sempre seguiti da lontano, perché non ho potuto trattenermi dal salutarti
ancora una volta». Poi, facendosi più tenero: «Palmina mia, ricordalo
sempre: il tuo babbo ti ha voluto e ti vuole un gran bene...; e, se là dovessi
trovarti a disagio, pensa che la tua casa è sempre aperta per accoglierti
con immensa gioia!».
La mia risposta fu il più tenero degli abbracci, dopo di che salii sul treno,
continuando a salutarlo e a sorridergli finché potei vederlo dal finestrino.
Durante il viaggio, non riuscii a scambiare con Vincenzo una sola parola; era troppo
pieno il nostro cuore, e in quel dolore ci sentivamo perfettamente fusi.
Appena giunti a Bologna, proposi a mio fratello di portarmi alla Metropolitana per
partecipare ad una seconda S. Messa. Mi accontentò. Durante la celebrazione
del Divin Sacrificio mi vennero fatte intuire tante, tante cose...
Usciti di chiesa, prendemmo la via che conduce al Collegio S. Giuseppe, casa generalizia
delle Ancelle del S. Cuore; e, giunti che fummo nell'atrio, suonai con la mia mano
il campanello dell'ingresso.
Sentii internamente che era proprio lì che Gesù mi voleva, e gli dissi
mentalmente:
«Ecco, vengo per darmi tutta a te, per consacrarmi al tuo amore, per fare,
istante per istante, la tua volontà».
prossima > |